Una recensione 
a cura di Pietro Pancamo
 
 
 
 
 
 
Leandro Piantini, 
Cinquanta sonetti
Edizioni del Leone, 
Spinea, 2007
 
 
Critico letterario dalle prestigiose collaborazioni («Paese Sera», «il Giornale» di Indro Montanelli, «Paragone», «L’Indice dei libri del mese»), il poeta Leandro Piantini — che nell’arco di una carriera sicuramente brillante ha con merito riscosso, senza esclusione di lodi, il plauso d’autori eminenti (vedi l’“epocale” Giovanni Raboni) — ha di recente pubblicato Cinquanta sonetti, una silloge affascinante i cui componimenti (tra echi a volte foscoliani, che si condensano in squarci inconfondibili come ad esempio “l’anima che rugge”) dichiarano apertamente in sfregio a qualunque esitazione (e producendosi eleganti in ghirigori d’innegabile bravura metrica) che no, «alzati e zoppica!» non è assolutamente il miracolo migliore che Dio possa offrirci o garantire. Anzi — per ottenere che il destino ci regali con impeto immediato giorni pieni e incoraggianti, se non ardenti addirittura — è sufficiente trattare l’esistenza con mano spensierata e sorriso consapevole, abbandonandosi “[...] al cielo che ci ha in cura” e che trasforma la tristezza in allegria. Allora sentiamo, di slancio, che il trascorrere del tempo si converte all’istante in un declivio di bellezze, che ci porta a (sci)volare tra i profumi di Piombino o dell’“estate rigogliosa”. 
Ecco: di colpo l’incertezza — illuminata da una dolcezza energica e dinamica: la maturità o saggezza (che capiti ormai gli sbagli, si spinge subito all’azione) — si tramuta in curiosità di scoprire, con “estro di vita” dimentico dell’età, nuove e “misteriose strade”: vale a dire quelle che in gioventù, affannati dagli errori, non ci era proprio riuscito di scorgere o distinguere davvero. Perché? Per un motivo assai palese: storditi in continuazione dal “[...] brutto// spettacolo del mondo [...]”, conoscevamo sì il coraggio ma non la speranza (insistendo ad arrovellarci inutili, di conseguenza, intorno ad uno stoicismo caparbio e lacerante, fonte cancerosa di fatica vana. O d’impegno sterile, magari: fine a se stesso... e nulla più). 
 
Pietro Pancamo
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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