Docente di sociologia del lavoro e dell’industria all’Università di Milano, nonché ricercatore del Cnr, il professor Aldo Marchetti ci offrirà in quest’apposito spazio tematico una serie d’interventi e contributi che rifletteranno criticamente sulle maggiori questioni sociali della nostra concreta realtà quotidiana, prendendo costantemente lo spunto da importanti saggi o libri di socioantropologia ma, soprattutto, dai grandi accadimenti storici (quando non dai fatti di cronaca, più stringenti e cruciali).
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Dopo la scoperta delle Americhe gli spagnoli organizzarono diverse spedizioni per scoprire se gli indios avevano l’anima. Il problema era teologico ma aveva implicazioni pratiche. Risultati privi di anima i nativi potevano essere cacciati al pari delle altre bestie selvatiche, con l’anima invece dovevano essere convertiti alla religione cattolica. D’altra parte anche gli indios nutrivano interesse scientifico nei confronti dei nuovi arrivati. Sappiamo che se riuscivano a mettere le mani su uno spagnolo lo immergevano nell’acqua e ce lo tenevano a lungo sino a vedere se marciva. Ci troviamo di fronte, come si può facilmente vedere, a due procedimenti ermeneutici opposti ma complementari. A partire dal corpo gli spagnoli cercavano l’anima, a partire da quest’ultima gli indios indagavano sull’esistenza del corpo. Il primo indirizzo di ricerca, beninteso, partiva da una presunzione di superiorità (io ho l’anima, tu non lo so) mentre il secondo forse soffriva di una convinzione di inferiorità (mi appari come un dio ma se marcisci come un pezzo di legno sei come me). Alla fine i conquistadores dovettero convenire che anche i nativi delle Americhe erano dotati di spirito e dobbiamo ritenere che anche per gli indios non dovette essere difficile convincersi della materialità dei nuovi arrivati. Gli esperimenti condotti separatamente dalle due parti erano approdati allo stesso risultato, cioè alla constatazione della appartenenza di tutti ad una comune umanità, eppure nessuno riuscì a trarre vantaggio da questa scoperta perché le dispute teoriche furono soffocate sul nascere dal frastuono delle armi.
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Mi sia permesso a questo punto un salto temporale (ma non logico). All’incirca al termine del 2005, abbiamo assistito alla rivolta delle banlieue francesi. Uno dei commenti più frequenti apparsi sui quotidiani italiani riguardava il mutismo dei rivoltosi, l’assenza di slogan, di parole d’ordine, di grida di rivolta. C’è da domandarsi perché mai ai giornalisti, costernati da questa afasia, non sia venuto in mente di andare nelle periferie delle città francesi a interrogare i giovani che ci vivono per sentire la loro voce. Non ho visto quasi nessun tentativo di questo genere (una eccezione in un periodico come «Il Diario», n. 43-44, anno X). Altri commentatori si sono affrettati a sostenere che dopo le rivolte degli immigrati delle città inglesi e dopo i roghi delle periferie francesi, sia il modello anglosassone d’integrazione che quello francese hanno fatto fallimento. Ma è lecito chiedersi: queste politiche d’integrazione sociale o di assimilazione erano state discusse e concordate preventivamente con le comunità di immigrati o erano state imposte dall’alto in base alla cultura e alle propensioni legislative di stati e governi europei? E siamo poi sicuri che esistano politiche di tale genere valide per tutti i gruppi di immigrati? Le politiche sociali d’inserimento che si stanno adottando in Italia, per quanto frammentarie e scalcinate (a parte qualche raro esempio di consulta comunale degli immigrati), vengono forse contrattate e convenute con le diverse comunità di immigrati? Assolutamente no. Gli stranieri nuovi arrivati (i nostri ospiti) a quanto sembra non hanno nulla da dire su questi argomenti che riguardano direttamente il loro futuro, non hanno opinioni, proposte, punti di vista degni di essere ascoltati. I principi di partecipazione, di scambio delle opinioni, di concertazione o negoziazione, di ascolto di pareri diversi, che così faticosamente si sono imposti nella storia della democrazia occidentale, valgono solo tra di noi. Nei confronti delle comunità di immigrati vale quello stesso impasto (con poche modifiche) di paternalismo, unilateralità e autoritarismo che ha connotato le politiche del vecchio colonialismo.
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Ed ora un nuovo salto argomentativo per accennare ai destini recenti della antropologia culturale. Si tratta di una disciplina in netta crisi di identità. I suoi adepti si sono da tempo accorti che è stata la più vicina compagna di viaggio degli eserciti colonizzatori e che i loro predecessori spesso, più che interpretare le culture dei popoli con cui venivano a contatto, hanno sovrapposto ad esse il loro sapere, i loro pensieri, la loro cultura. Quando studiamo Lévi-Strauss o Malinowski, ci si è chiesto, conosciamo veramente gli indiani nambikwara e gli abitanti delle Trobriand o rischiamo di confonderli con il modo in cui i due etnologi testé nominati li hanno visti e giudicati? Ci si è accorti insomma che in antropologia a non avere voce erano proprio quelli che venivano, non a caso, considerati gli “oggetti di studio”. Oggettivati, reificati, spesso ridotti a feticci, i popoli dell’etnologia sono stati resi muti, hanno fatto parlare gli accademici occidentali restando in silenzio. La scoperta di queste contraddizioni insite nella loro disciplina, ha indotto alcuni studiosi dell’ultima generazione a ritirarsi tra le quinte lasciando che parlassero soltanto i veri protagonisti delle loro storie (vedi ad esempio i lavori di Victor Turner come La foresta dei simboli o Il dio d’acqua di Marcel Griaule). Ma anche questa diserzione dal loro ruolo, per affidarsi esclusivamente alle testimonianze di terze persone, alla fine è sembrata eccessiva e foriera di equivoci: chi garantisce della veridicità dei ricordi e delle narrazioni? La tendenza che si sta affermando quindi negli anni più recenti è quella di una antropologia dialogica in cui il processo conoscitivo avviene attraverso lo scambio tra lo studioso e i testimoni delle culture altre (vedi ad esempio La misère du Monde di Bourdieu).
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Tirando succintamente le fila mi pare che il faticoso e doloroso tragitto seguito dall’antropologia culturale possa essere di esempio per quanti a diverso titolo (politici, operatori sociali, legislatori, giornalisti) si occupano di problemi d’immigrazione o di rivolte in periferia, attuali o future. Si scoprirà forse che i frutti di un processo di conoscenza condivisa e consensuale possono trasformarsi in un beneficio comune.
Aldo Marchetti
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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