Il sentiero
“del camminare nel paesaggio”
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“Silenzio di paesaggi. E nel silenzio il ritorno di una consapevolezza. Quella dell’emergere sporadico, nella storia poetica dell’uomo, di un’attenzione mai morta per i paesaggi naturali, per la terra, per il terreno sotto i piedi. Ti parla di qualcosa che è radicato nella mente, una categoria, un archetipo, qualcosa di ritagliato nello stesso tessuto del sacro, del religioso, ma che poi viene compresso e messo ai margini proprio dal sacro, dal religioso, da altri archetipi e categorie che sono la base di ogni architettura politica e culturale dell’Occidente”.
(Matteo Meschiari, Poetica del terreno, Anemone vernalis, Modena, 1999)
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La nuova poesia della Terra
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Proprio due anni fa in questa stagione stavo camminando per Avignone, un luogo importante per la storia del paesaggio perché, alto tra le case, sempre bianco per la neve o per le frane calcaree, si può scorgere il profilo non lontano del Monte Ventoso. È lì che Petrarca, salendo per pura cupiditas vivendi, avrebbe “inventato”, a detta di alcuni interpreti, la categoria estetica del paesaggio, e cioè una natura contemplata per se stessa, nella sua bellezza scevra d’allegorie. Camminavo dunque per Avignone ed ero con un amico editore francese, quando a un certo punto gli chiedo a bruciapelo: «Chi sono nella Francia di oggi i poeti che parlano in modo nuovo della Terra?». Così su due piedi Francis Combe (è questo il nome dell’editore) non è stato in grado di farmi dei nomi, ma qualche mese dopo mi ha risposto con un articolo che girava il problema al pubblico francese: ammettendo che in effetti in Francia non ci sono molti autori contemporanei che parlano della Terra, terminava facendo un appello ai lettori, e cioè chiedeva se ne conoscessero, o se fossero essi stessi dei poeti della Terra.
Che io sappia, in questi due anni, le cose non devono essere cambiate molto, ma va detto a onor del vero che il panorama non è poi così arido, a cominciare proprio da Combe, che oltre a essere editore è anche poeta. Ecco allora a mo’ d’introduzione un frammento del suo poema Cévennes, che potrebbe fare eco, quasi un controcanto, al Petrarca del Ventoso: “Sono salito infine al Mont Lozère./ I prati di vento, le torbiere muscose, le graminacee ingrate e i ciuffi di nardo./ Nella collisione delle correnti d’aria, in mezzo all’erica viola per il freddo, sono salito infine sul poggio calvo,/ e là, in questo paese ritirato dal mondo già da tempo/ ho posato la mano sul collo di un caos di pietre, l’amnesia della roccia, la mandria silenziosa dei macigni solubili/ sono loro i testimoni/ della salita dello gneiss,/ del sollevamento del quarzo,/ della migrazione della mica e del feldspato tra strati e strati di notte,/ della rivolta dei megaliti inalberati da tempo dal vento, dalla neve e dalla pioggia./ Allora ho voluto/ abbracciare il corso del silenzio/ inaugurare la respirazione delle creste/ tallonare i talloni del cielo/ costruirmi un orizzonte di metri cubi di ossigeno/ e ho camminato/ tra le picee, nel mormorio infantile dei mirtilli, la leggenda dei torrenti,/ e ho sentito, profondamente sepolto, sotto i miei piedi, il rumore continuo del minerale./ Poi ci siamo seduti/ e abbiamo diviso un po’ di pane e di formaggio duro”.
Torneremo alla Francia verso la fine, con un autore che scrive in francese ma che è di origine ungherese. Passiamo invece all’Italia, e a un autore che rappresenta la punta della scrittura di paesaggio non solo qui da noi. Ovviamente, e per molte ragioni, sto pensando a Francesco Biamonti, che per una volta non citerò dai suoi romanzi ma da una conferenza poco nota, tenuta in Francia, che esiste solo in francese, e che parla in qualche modo del destino della letteratura: “Tutto cambia con il XX secolo: la natura diventa indifferente, lontana, e sprofonda in un disordine cosmico. […] Tutta la letteratura esistenzialista è attraversata da questa concezione di una natura che non significa più niente, che non è altro che un “correlativo oggettivo” dello stato d’animo dell’uomo. E con essa, tutta la Linea ligure e quella della costa francese del Mediterraneo, dove la natura fornisce degli oggetti che servono a stabilire lo stato d’animo di chi guarda. Questo miscuglio d’emotività umana e di dati naturali comincia con Cézanne. Con Cézanne la natura diventa non solo il “correlativo” dello stato d’animo del pittore, ma anche il fondamento dell’emozione stessa. C’è questa oggettività dell’emozione che si trasmette alle cose, tracciando al tempo stesso una sorta di autoritratto”. E ancora: “Bisogna restare attaccati a qualcosa della natura che, in qualche modo, diventa un’ancora, una speranza di salvezza. Non so come spiegare questo ritorno alla natura nella letteratura contemporanea, questo ritorno del mondo. Al di là delle fedi religiose e delle fedi politiche, al di là delle ideologie, resiste questo carattere primordiale della Terra nell’avventura umana. […] La durezza della pietra torna nella letteratura […] Se volete che il vostro personaggio viva, fate che sia libero. La libertà e la verità della natura, della Terra, sono i soli terreni di esplorazione che restano allo scrittore”. La frase è carica di destino, ma quello che Biamonti non dice è che molte cose stanno cambiando perché, anche se in modo indiretto o non del tutto cosciente, l’incontro tra discipline diverse ha preparato questo “ritorno” della Terra in letteratura. Si tratta di una strana e antica alchimia tra poesia e scienza, due mondi che possono essere visti come due fiumi, due fiumi che hanno corsi distinti ma che procedono nella stessa direzione, perché si interrogano entrambi su ciò che ci riguarda più da vicino. Ma disegnare la geografia delle terre che stanno in mezzo, quella specie di Mesopotamia mentale che è la culla della nostra cultura, è un lavoro quasi disperato. Meglio, dunque, fare delle ricognizioni a breve raggio, per cercare di capire qualcosa, per abbozzare un itinerario, e per cominciare a orientarsi.
Indicherò allora una pista o due che, per indagare una fase piuttosto fertile e piuttosto sconosciuta della poesia contemporanea, sto seguendo con interesse da qualche tempo. Il mio itinerario comincia in Italia, in particolare in Liguria, passa poi in Bretagna, fa una puntata in un’America Latina che non esiste ancora, e va a finire nei deserti di tenebra e luce della penisola arabica, magari con una puntata estrema in Irlanda. L’idea, ma lo vedremo in conclusione, è che dopo due secoli di Romanticismo più o meno travestito, e dopo quarant’anni di avanguardie vere e meno vere, oggi una linea di poeti sta reintegrando la Terra nella poesia, e voglio dire una Terra molto concreta, molto lontana da simboli e metafore. Tutto questo, spero di metterlo in luce, dipende da un rapporto confidente, mai dialettico, mai antitetico, che il poeta ha con la scienza, in particolare con la geografia e la geologia.
La Liguria da cui desidero cominciare è anzitutto quella di Italo Calvino, un autore che viene sempre invocato ogni volta che si voglia parlare del rapporto tra scienza e letteratura. Quasi tutta la produzione di Calvino è ispirata dalla scienza, e proprio per questo mi sembra doveroso citarlo, ma abbandonandolo rapidamente e concentrandomi solo su un frammento di una sua recensione del 1984, nella quale si commenta un libro di poesie, L’oceano e il ragazzo, di un autore ligure, Giuseppe Conte: “Come situare in una mappa di precedenti e di tendenze questa presenza di poeta che si direbbe orgogliosamente solitaria e “fuori tempo”? È giusto iscriverlo d’ufficio nella Linea ligure della lirica italiana del Novecento, che era invece rivolta in una direzione di scarnificazione, smorzamento, prosciugamento, cioè il contrario della sua? Gli elementi del paesaggio sono però lì, vistosi, e questo non è soltanto un dato esteriore, trasformare un paesaggio in ragionamento: forse è questo il vero tema che la Liguria proponeva e continua a proporre ai suoi poeti e ai suoi scrittori, quanto più la precarietà del paesaggio s’accentua”.
“Trasformare il paesaggio in ragionamento” è una frase molto bella, che possiamo prendere come indizio per cominciare a spostarci. La Linea ligure di cui parla Calvino è qualcosa di molto strano per l’Italia. È come se la Liguria, più di ogni altra regione d’Italia, si fosse imposta come luogo materiale ai poeti che ci sono nati o che ci hanno vissuto. Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Montale, Sbarbaro, Caproni, lo stesso Calvino, oggi Giuseppe Conte, ovviamente Biamonti: tutti questi scrittori hanno sentito che il paesaggio non è un ornamento, ma un tessuto, la matrice stessa della poesia. Dicevo che è un caso raro per l’Italia, l’Italia di Benedetto Croce, a cui importava altro che il paesaggio, o l’Italia dei luoghi appesantiti dalla troppa storia, da una cultura urbana piena di gloria, ma anche inevitabilmente un po’ logora. In Liguria si è come seguita una pista a sé, e questa terra, come ogni esperienza individuale ma autentica, è diventata un’immagine universale, un’immagine del mondo.
Mi sono sbarazzato troppo rapidamente di Calvino. Invece in un suo testo meno noto, Dall’opaco, c’è un passaggio che mi serve: Calvino scruta la costa da terra, e osserva che lo sguardo trova prima o poi un ostacolo in un promontorio a destra o a sinistra; la vista si ferma lì, a meno che non la si faccia continuare oltre, dall’altra parte: “[...] da brava isoipsa seguendo la serie d’insenature e golfi, e avvallamenti interni a queste insenature e golfi, fino a incontrare promontori che si spingono nel mare più avanti di altri promontori delimitando golfi più vasti che comprendono i golfi più interni, e così via fino a stabilire che questo sistema di golfi interni ad altri golfi, dorati al mattino e azzurri la sera verso ponente, verdolini al mattino e grigi la sera verso levante, continua così per quanto sono lunghi i mari e le terre, tendendo a inglobare tutto il mare in un unico golfo, per cui tanto vale considerare come forma del mondo quella del golfo che ho davanti ai miei occhi”.
Questo brano fa pensare ai frattali di Mandelbrot, e infatti c’è un capitolo nel libro Les objets fractales che si intitola Quanto è lunga la costa della Gran Bretagna?. Mandelbrot, con una formula matematica molto semplice, è riuscito a misurare oggetti simili, ma la cosa più interessante è che dopo varie analisi, è arrivato a una conclusione importante, e che cioè, osservando una costa, “si è indotti a credere che, a meno della scala, lo stesso meccanismo abbia potuto generare tanto i minuti dettagli quanto i caratteri globali delle coste”. Proprio quello che aveva intuito Calvino dal Golfo di Sanremo.
Ma c’è un ligure, Camillo Sbarbaro, che aveva sfiorato qualche decennio prima un concetto simile. Tutti sanno che Sbarbaro era un lichenologo di fama internazionale. All’estero era quasi più conosciuto per le sue pubblicazioni scientifiche che per i libri di poesia. In ogni caso, in Licheni, Sbarbaro scrive: “Mi ingombra la stanza, la impregna di sottobosco un erbario di licheni. Sotto specie di schegge di legno, di scaglie di pietra contiene poco meno un campionario del mondo. Perché far raccolta di piante è farla di luoghi. Nulla come la pianta che da sé vi è nata ritiene d’un sito; intrinseca ad esso, come quella che ne ritrae la natura e si risente d’ogni sua circostanza, lo ripropone nel modo più concreto. Con la voce del torrente o il respiro del mare, con l’aria di città o di altura, evoca in chi la colse l’ora e la stagione. Disseccata, serba ancora notizia di come il sole la toccava.
[...] E ogni pianta che vedo, che tocco, ogni minimo frustolo documenta un punto del globo; di esso è qualcosa. Vi nacque, a suo agio vi crebbe. È intrinseca a quello; ne è pegno”.
Dunque l’erbario come un “campionario del mondo”. Ancora una volta, cioè, il piccolo dice il grande, il macrocosmo è già contenuto nel microcosmo.
Anche se Sbarbaro non ne parla mai, doveva certo conoscere un lichene crostoso tra i più diffusi, e dal nome tra i più poetici, il Ryzocarpon geographicum. In un nome è compendiato questo rapporto dinamico e metonimico tra parte e tutto, tra piccolo e grande, tra lichene e mondo; e come la struttura del lichene è metonimica, perché i licheni si dilatano — e moltiplicano in modo progressivo le loro unità minime secondo un principio di autosomiglianza —, così lo sguardo del poeta procede per dilatazioni, montando catene di immagini che crescono sulla matrice concreta del paesaggio.
Il principio di autosomiglianza intuito con sguardo poetico da Sbarbaro e Calvino, e sviluppato con sguardo scientifico da Mandelbrot, mi sembra uno dei primi snodi per tracciare il nostro itinerario. Infatti non ci propone la vecchia e usurata immagine del mondo in un granello di sabbia, quasi in una sistole-diastole tra grande e piccolo, tra microcosmo e macrocosmo, ma si avvicina piuttosto a quello che auspicava Calvino, e cioè “trasformare il paesaggio in ragionamento”, una disposizione a cogliere dall’esperienza del mondo naturale dei modelli per raffigurarsi il mondo in generale, quello concreto ma soprattutto quello mentale, vale a dire trovare nella Terra dei modi nuovi di organizzare il pensiero.
Per continuare lungo la costa di Calvino, che come abbiamo visto non si interrompe mai, o per restare, se vogliamo, nella Gran Bretagna di Mandelbrot, voglio far parlare adesso un autore scozzese che vive in Bretagna, e che può illustrare la tappa successiva del mio itinerario. Si tratta di Kenneth White, fra le cui opere bisogna sicuramente ricordare Le Plateau de l’Albatros (1994), che inizia così: “La geopoetica è il nome che do da qualche tempo a un “campo” che si è disegnato alla fine di lunghi anni di nomadismo intellettuale. Per descrivere questo campo si potrebbe dire che si tratta di una nuova cartografia mentale, di una concezione della vita finalmente svincolata dalle ideologie, dai miti, dalle religioni ecc., e si tratta anche della ricerca di un linguaggio capace di esprimere quest’altra maniera di essere al mondo. Chiarendo da subito, però, che si tratta qui di un rapporto con la Terra (energie, ritmi, forme), non di un assoggettarsi alla natura, e nemmeno del radicarsi in un territorio”.
Kenneth White lavora a un progetto che è contemporaneamente la sua poetica. Nasce da un’idea precisa: è possibile stringere un’equazione tra mindscape e landscape, tra mente e paesaggio. Non un’equazione deterministica, nel senso che la Scozia crea una scrittura inconfondibilmente scozzese, ma nel senso che la Scozia ha di che ispirare e guidare la mente. La topografia di un luogo, insomma, può aiutare a costruire una topografia mentale, può attivare il cervello in un modo anziché in un altro, può, infine, propiziare e dare forma a una visione generale delle cose. Questo, in essenza, è ciò che White chiama “geopoetica”, una via di pensiero che si pone a metà strada tra scienza e poesia. La logica di White coincide allora per esempio con quella della baia bretone di Lannion, una logica che “È nella forma dei promontori/ è nei modi in cui l’onda/ si spezza lungo la battigia/ (con lento movimento spluf contro le rocce)/ è nella luce variabile/ è nel silenzio limpido di questa mattinata d’aprile”. Oppure: “[...] acque basse/ con brevi, brusche, borbottanti onde/ nebbia spessa che vaga su di esse/ di tanto in tanto, attraverso, puoi udire/ un cigno selvatico che grida// sabbie ora scoperte/ un po’ piatte, un po’ solcate// il mare in distanza un palpito di blu/ lungo tacere pomeridiano// rotto dal gabbiano che grida// perduta tra luce e foschia/ la fine della terra, Roscoff// erica spina e pino/ ginestra e ginestrone/ calano/ alle curve spiagge sabbiose/ e c’è un grand’arco di terra/ che dice che l’Atlantico/ si allarga innanzi a te// vento si abbatte dalla meseta/ pioggia tiepida di tanto in tanto dall’oceano// abeti sfiorano la linea delle nevi/ faggi d’altura/ stringono freddo nel fogliame/ erica ed erba coriacea si allacciano alla bordura sabbiosa// su lastre di arenaria/ su ciottoli, su frammenti d’osso/ disegnano uccelli e cervi/ e lepri e cavalli/ salmoni e foche”.
Seguendo un immaginario che lo porta a risalire fino a un’epoca altra, un’epoca di ghiacciai e migrazioni di uomini e animali, White sta cercando di dare peso alla situazione presente, vuole insomma mostrarci quello che abbiamo sotto gli occhi e che non vediamo. È quello che fa anche un altro poeta, questa volta venezuelano, Juan Liscano, che abbandona l’intero mondo di metafore che aveva popolato la sua precedente poesia, e all’età di sessantasei anni scrive versi come questi: “I ghiacciai scivolano/ come il magma/ come slittano i fiumi maturi/ come i ghiacciai/ come scivola la bollente lava/ come i fiumi invecchiati/ come il ghiaccio azzurro/ il flusso di basalto delle eruzioni/ il magma che scivola/ i fiumi i ghiacciai... ”.
Una poesia che colpisce, in primis, perché caratterizzata da una totale assenza dell’uomo: qui il paesaggio è integralmente geologico. La raccolta Fundaciónes, infatti, affresca in trentacinque poesie un mondo postumano, dove solo il vegetale e le dinamiche minerali regolano i ritmi del mondo. Il mondo che Liscano vuole rappresentare è inumano, ma il suo sguardo di poeta e di uomo sopravvive; solo deve spersonalizzarsi, e deve salire a un livello di percezione più alto. E se il paesaggio di Fundaciónes è proiettato in un lontano futuro, il poeta che lo ricrea sembra avvicinarsi ancora una volta alle origini atemporali della poesia: “Le felci di rigoglioso verdore/ vicine all’origine/ non testimoniano/ né di mari e alghe primarie/ né delle crittogame vascolari/ e delle arenarie rosse/ né di dolomie porfidi minerali/ né di alluvioni/ né delle glaciazioni/ né della specie animale/ che sorse eretta/ tra le ondate lentissime/ del ghiaccio/ né degli sprofondamenti/ e delle sparizioni/ né di se stesse”.
Tornando al bacino del Mediterraneo, incontriamo però l’esperienza di un altro poeta, Lorand Gaspar, che meglio di ogni altro sembra rappresentare quella che ho voluto chiamare la “nuova poesia della Terra”. Qui l’incontro tra scienza e letteratura non è solo ideale, non si tratta del caso di un poeta che torna alla scienza per ridurre un congenito intimismo lirico. Gaspar è un medico chirurgo di origine ungherese, ed è al tempo stesso un poeta di lingua francese che vive tra Parigi e la Tunisia. In lui esistono realmente due anime o, meglio, due pratiche altrettanto concrete.
Volendo parlare di scienza e letteratura si potrebbe infatti compilare una lista di tutti quegli scrittori che (a livello professionale, talvolta) si sono impegnati in campo scientifico. Restando in Francia basterebbe citare Raymond Queneau, Jacques Roubaud, Yves Bonnefoy. Per l’Italia basterebbe il nome di Gadda. Ma la cosa non ci direbbe molto di più, o si scoprirebbe soltanto che per ciascuno di questi scrittori la scienza è assai importante. I criteri e le forme varierebbero, dal dissolvimento nell’ironia all’immersione pessimista. Il punto è che se la scienza può offrire argomenti alla poesia (cosa che accade già dal De rerum natura di Lucrezio, per non parlare poi dei presocratici), è anche vero che non a tutti la scienza offre modi per fare poesia. Ciò che in effetti forse conta, per un poeta che interroghi il reale, non è tanto cercare nella scienza un sostituto o un complemento all’estro immaginativo, quanto chiedere ad essa un’altra forma della visione, una visione interna alle cose, che sappia ordinare i fenomeni in virtù di energie diverse dall’io, dall’impressione, dal volo soggettivo. In questo senso i confini tra scienza e poesia diventano meno netti, meno assertivi. Ed ecco cosa dice Gaspar in Apprentissage, del 1994: “Mi si è spesso domandato come potessi conciliare poesia e chirurgia, due pratiche che sembrano così lontane l’una dall’altra, forse addirittura contraddittorie nell’immaginario quotidiano. In fondo non so mai bene cosa rispondere, non sentendole né complementari né opposte, ma derivate molto naturalmente da un lungo commercio tra i movimenti che partono dalla mia fonte minuscola e tutti quelli, innumerevoli, coi quali si scontrano, si alleano, o a volte si uniscono, dall’epoca in cui nella grotta uterina cominciavo a captare le prime sonorità della voce di mia madre, a sentire i primi massaggi sul dorso delle contrazioni uterine e, forse, le prime molecole — in soluzione — di un profumo materno”.
E ancora, in Approche de la parole, del 1978: “Hegel ha colto bene l’origine comune, il radicamento inseparabile di due attività opponibili solo in superficie: scienza e poesia. Immaginare, inventare, percepire rapporti, rimettere in causa, verificare. Sondare questa musica insonora che tesse il mondo dall’interno, crescita così semplice nel suo gesto, così complessa quando si seziona e separa, poi, forse, di nuovo semplice in qualche parte. Sondarla per attingervi la legge di gravitazione di Newton, le equazioni della relatività generale e quelle della meccanica ondulatoria, le Illuminazioni di Rimbaud o le partiture di Bach: è sempre la stessa solitudine a ridosso di un abisso”.
Lorand Gaspar crede con Spinoza a un manifestarsi molteplice di un’unica fonte inesauribile. Tutto e il suo contrario, il bianco e il nero, il corpo e la mente, la scienza e la poesia sono manifestazioni di un’unica energia sin dall’alba dei tempi. Ma la sua tensione trascendente non lo allontana dal concreto, dal cosiddetto reale. Le lunghe giornate in ospedale, il rapporto con il corpo malato gli impediscono di svaporare nelle idee pure: l’etere è in sala operatoria, non in qualche sfera oltre il mondo; e se fuori dell’ospedale c’è il deserto, il gioco di prospettive continua, perché nella roccia Gaspar riconosce le stesse trame della luce, e nella luce il principio che rende solida per l’uomo la materia. Ecco allora il ritorno della pietra, come diceva Biamonti, perché in Lorand Gaspar una grande tensione spirituale si mescola a una meditata ispirazione geologica, ancora sconosciuta, questa, qui da noi. Era però il 1972 quando pubblicava la sua più bella raccolta, Sol absolu (Suolo assoluto), che già nel titolo richiama i poli di un’esplorazione scientifica e poetica. Un esempio tra i tanti: “Allungato tra il culmine della catena di Giudea e la depressione del Ghor, il deserto di Giuda affaccia a oriente i suoi pendii ondulati, come un’ondata irrigidita dell’immenso mare carbonifero.
Questo orientamento lo mette al riparo dai venti umidi dell’ovest e lo espone al soffio torrido dei venti dell’est.
Le rare raffiche dell’inverno si ingolfano in letti di torrenti profondamente scolpiti nel mantello di roccia dura. Le acque di ruscellamento si infiltrano nelle porosità del calcare senoniano dagli strati mal cementati. Queste acque sotterranee irrorano le oasi rannicchiate sotto le pareti a picco del Ghor.
Tuttavia, anche al termine di un inverno parsimonioso, si possono vedere i dorsi, di una nudità accecante, ricoprirsi di un verde timido, rado, che profuma lo sguardo. “Che gioiscano deserto e terra arida... che esultino e gridino di gioia”.
Presto i primi venti Hamsin si incaricano di bruciare la tenera lanugine dei pendii. Poi l’estate riporta i paesaggi alla loro fonte assoluta. Destino esemplare tra l’eclatante biancore dei gessi e il riverbero dei bruni surriscaldati dei fiumi di selce. La roccia polverizzata spinta dal vento orientale solleva la sua cateratta di fango nell’arroganza del blu.
Avvicinandosi al culmine s’incontra il midbar biblico, regione semidesertica, zona di transizione dove i nomadi fanno brucare i loro magri armenti, dove le donne fellah spingono la loro carretta di legno in mezzo alla pietraia che dà riparo al ciclamino selvatico. Arrivato al limite del suo “campo”, il contadino guarda un istante, tra le zampe della sua mula, la secchia blu del Mar Morto, appena più grande di questo sparviero sospeso al di sopra della faglia”.
Questa specie di fedeltà alla Terra che è anche una fedeltà alla poesia, ritorna in un altro autore, l’irlandese Seamus Heaney, che paragona spesso il lavoro del poeta a uno scavo nel terreno. In Mossbawn, il testo più autobiografico di Preoccupations, si legge: “Ricordo sempre il piacere che provavo a scavare la terra scura del nostro giardino e trovare, pochi centimetri sotto la superficie, una pallida vena di sabbia. Ricordo anche gli uomini che vennero ad affondare l’asta della pompa, e scavarono attraverso quello strato di sabbia, fino ad arrivare giù, nelle ricchezze bronzee della ghiaia, che in breve si riempivano di acqua sorgiva. La pompa segnò una originaria discesa nella terra, sabbia, ghiaia, acqua. Era il centro e l’asse portante dell’immaginazione [...]”.
Scavare: scavare uno stile, e scavare gli strati di una memoria arcaica, originaria, che proprio la Terra, centro e metonimia dello spazio e del tempo, lega in continuità con il qui e con l’ora. Per Heaney fare poesia diventa una sorta di scavo archeologico, e tutta l’Irlanda, con il suo passato glaciale, con le sue torbiere, è vista come un immenso sito di immagini, di metafore sepolte. Esemplare è Bogland (La torbiera) da Una porta sul buio: “Non abbiamo praterie/ che taglino il sole la sera/ — l’occhio s’impiglia ovunque/ negli angoli dell’orizzonte,// si lascia corteggiare dall’occhio di ciclope/ di un lago. La nostra terra senza recinti/ è una torbiera che non smette di screpolarsi/ sotto gli sguardi del sole.// Hanno tirato fuori dalla torba/ lo scheletro del Grande Alce/ irlandese, lo hanno issato/ come una cassa piena d’aria,// burro sepolto/ da secoli/ è stato ritrovato bianco e salato/ anche il suolo è burro buono, nero// che fonde e si apre sotto i piedi/ mancando la sua ultima definizione/ da milioni di anni. Qui/ non trovano mai il carbone,// solo tronchi di grandi abeti/ intrisi d’acqua, e molli come polpa./ I nostri pionieri continuano a scavare/ verso l’interno e verso il basso,// sembra che si siano fatti accampamenti/ su ogni strato messo a nudo./ L’acqua delle torbiere viene dall’Atlantico?/ Il centro è molle e senza fondo”.
La ricognizione terrestre e intima di Seamus Heaney ha avuto bisogno di molti sondaggi in verticale. Numerose sono le poesie in cui il terreno, la torbiera, il sottosuolo diventano metafora dell’immaginazione poetica e metonimia di un territorio reale, di uno spazio concreto che non si può comprendere restando solo in superficie, limitandosi alle cartografie che i paesaggi glaciali d’Irlanda disegnano nello sguardo. A volte la comprensione del luogo passa attraverso piste più convenzionali, come in La penisola, sempre in Una porta sul buio: “Quando non hai più niente da dire, guida/ per un giorno attorno alla penisola./ Il cielo è alto come su una pista di decollo,/ la terra senza segnali, non si arriva// ma si attraversa, sempre rasenti allo strapiombo./ A sera gli orizzonti si bevono mare e colline/ il campo arato ingoia il timpano sbiancato a calce/ e sei di nuovo al buio. Ricorda adesso// il litorale smaltato e il ceppo in controluce,/ lo scoglio su cui i frangenti si rompevano in stracci/ gli uccelli sospesi sui loro trampoli/ isole al galoppo al largo nella nebbia// e guida verso casa, ancora con niente da dire/ tranne che ora puoi decifrare ogni paesaggio/ con questo: cose fondate solo sulla propria forma,/ acqua e terreno ai loro estremi”.
Heaney, Gaspar, Liscano, White, il nostro Biamonti dopo Calvino, si sono fatti domande sulla Terra, provando a render fertile la loro Mesopotamia mentale con piene stagionali. Chi ama l’immagine dell’arcipelago può vedere questi poeti della Terra come altrettante isole, ma deve poi concentrare lo sguardo più sulle correnti d’acqua che non sulla terra, e cioè su una complessità che separa e unisce allo stesso tempo autori così affini e così diversi.
Azzardo allora un abbozzo di interpretazione. Il pensiero scientifico e il pensiero poetico si nutrono della medesima complessità, e credo che questa complessità sia già implicita nella Terra, nelle forme del paesaggio. Il confronto con il paesaggio, infatti, apre alla complessità, e il pensiero per complessità apre al paesaggio. Il paesaggio reale è una realtà molteplice, che funziona come modello di pensiero e come plateau sperimentale per ogni ricognizione concreta. E la necessità di decifrare, leggere, interpretare, misurare, organizzare, preservare il paesaggio, ha fatto sì che negli ultimi trent’anni alcuni poeti, filosofi, scienziati, geografi, ecologi ed ecologisti abbiano trovato in esso il terreno giusto per indagare e reindagarsi secondo complessità, una complessità che però non resta mai tale troppo a lungo, perché prima o poi si ricompone in un’idea (o in un ideale) di semplicità e di ordine.
Per questo, un carattere comune agli autori che ho scelto, è che tutti sembrano non poter rinunciare a fornire una “visione generale” del mondo. La loro opera è abitata da una forte volontà cosmografica. Probabilmente, perché consapevoli che solo la parola scritta è in grado di allestire quello spazio di gestazione in cui può finalmente accadere il nostro incontro con il mondo: un paesaggio verbale, dunque, come interfaccia in rilievo tra paesaggio concreto e paesaggi della mente.
Ma come ho iniziato citando la nuova poesia di paesaggio di Combe, voglio chiudere con una poesia della Terra ancora più nuova, perché a scriverla è un ragazzo di ventitré anni, francese, delle parti di Avignone. Si chiama François Bordarier, e il suo testo è un poema epico che si intitola Solutréens: “Allora — era il tempo dei grandi freddi,/ di distese di neve che annegavano le terre emerse,/ delle miriadi di arcipelaghi di ghiaccio/ che rallentavano a nord il moto degli oceani.// Ed erano gli immensi soffi d’aria, lieti/ dalla carezza selvatica, a spazzare l’esoscheletro/ cristallino, a fiutare la traccia dell’orso,/ a portare i silenzi da una riva all’altra.// I rari animali si mescolavano alle raffiche,/ svanivano presto nelle sue pieghe intime./ I suoli erano sterili, i semi in letargo./ Ed era il tempo in cui l’Uomo resisteva”.
Matteo Meschiari
Docente di letteratura italiana presso l’Università di Avignone
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