Il sentiero
“della memoria e delle radici”
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“Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. A ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente”.
(Simone Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Mondadori, Milano, 1996, traduzione di F. Fortini)
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È ancora ieri
-Un racconto di Lucia Visconti-
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«Finalmente soli, amore!» — sussurra Giulia, occhi d’ebano, gambe affusolate, snella e sinuosa, mentre apre la porta in castagno di una grande camera da letto — «Oggi, tutto il giorno di guardia. Non sono riuscita a ritagliarmi momenti per te».
- Ti vedo affranta, Primavera, vera Prima, prima vera donna della mia vita, sorriso di gran sollievo dopo le “nevate” che ghiacciano anche l’anima! Vieni!
«Eccomi» — ride divertita la donna, e indossando una fresca camicia a fiori, poggia la testa sul cuscino accanto al suo, come sempre da anni — «Volevo raccontarti un fatto serio, ma te riesci a farmi divertire anche quando credo di essere irrimediabilmente triste. Comunque, oggi è stata davvero dura: nel pomeriggio è morto un quarantenne d’infarto. È arrivato in condizioni disperate. Dopo i primi soccorsi, pensavamo di trasportarlo a Siena in elicottero, ma è deceduto durante i preparativi. Le urla della moglie atterrivano. Non sono riuscita a dirle una parola. Mi sono chiusa nell’ambulatorio ed ho pianto, con lei, per lei, su di me, che rivivevo tutto…
Il tempo non lenisce il dolore, anzi lo conferma brutalmente. Si spezza il filo conduttore della quotidianità, cade nel non senso. La vedova si trova a camminare come nel fango da sola; un passo dopo l’altro tra fatica e ribrezzo della vita. Vorrebbe assecondare la voglia di pazzia, di paralisi, di suicidio, ma sa che il suo uomo ne sarebbe addolorato. E quindi cerca di sopravvivere. Inoltre spesso ci sono i figli bisognosi di tutela e conforto; allora, distrutte, buttiamo giù il groppo, assumendoci la croce che a volte sembra impossibile portare».
- Ma io ti sono vicino!
«Sì, ora ti sento, ma per mesi… mente e corpo in voragine. Svanita la voglia di raccontare, ascoltare, progettare, correre in bici. E, soprattutto, dura la maschera per evitare di parlare di noi e scoppiare a piangere ovunque mi trovassi. Il mio ruolo di medico mi imponeva viso da pagliaccio. La notte. La notte ti chiamavo, ti chiamavo, fino all’alba: “Roby, vita mia, che è successo? È proprio vero che la terra sta distruggendo il tuo corpo?”.
Finché un giorno ho visto sulla tomba un’orchidea selvatica. Il vento dal monte doveva avertela regalata. E ho capito: con il tempo saresti diventato un giardino ridente assimilato a quel terriccio. Ti ho ritrovato vivo, una cosa sola con quella terra che abbiamo tanto amato, da rinunciare a proposte di lavoro in città lontane».
- Perché emigrare? È vero: abbiamo mangiato panini al prosciutto a pranzo e cena mentre io facevo supplenze e te la guardia medica, ma come sostituire questo campo sportivo dove sono cresciuto divenendo una cosa sola con i compagni di squadra? E soprattutto cosa avrei insegnato a bambini nati in luoghi a me sconosciuti? Qui basta una parola per intenderci; vivere insieme la Fiera, la Festa di San Marco è sentirci un solo corpo. Che bello parlare loro del nostro monte, antico vulcano e poi cava di cinabro, pane per la vita di ogni giorno. Un ragazzino una volta si spaventò: “Maestro Roby, non erutterà mica, qualche notte?”.
“No. È tranquillo. Non vedi? Sembra di peluche!”.
E gli occhi di tutti si dilatavano di stupore quando scoprivano di Carlo Magno nella nostra abbazia; della Via Francigena, sui cui lastroni li facevo camminare; di famiglie nobili come i Visconti, che avevano impresso lo stemma sulla pietra serena del portone, nel loro palazzo…
“Allora siamo importanti!”, esclamavano con orgoglio. E in quel momento mi pareva di aver consegnato il testimone, il tesoro più grande che possedessi.
«Ma poi, quel malessere e la maledetta diagnosi: leucemia acuta. Impossibile tentare la chemio.
“Giulia, non dirlo a Roby. Parlagli di una brutta anemia. Capirà da solo, a suo tempo”, mi consigliò il dottor Viviani. Ma io non ti avevo mai mentito. Allora mi convinsi di un possibile errore. Un po’ di affaticamento mentre nuotavi… sintomo di morte? Doveva trattarsi di un errore. Bisognava andare altrove, approfondire, usare strumenti all’avanguardia».
- E intanto io credevo di cavarmela con un po’ di ferro! Ma non pensarci più. Siamo ancora insieme, come sempre!
«Sì, mio. Stasera, per tornare, sono passata dal corso Maggiore, anziché dall’Ort’e Fossi. Lì avrei incontrato tanti amici ed invece volevo raggiungerti in fretta. Mentre camminavo — c’era una brezzolina! — mi ha raggiunto un divertente dialogo tra vecchiette. In dialetto naturalmente. Ascolta...
“Beppa, ma che c’era in conventu, oggi?”.
“L’hai sentitu anche te, chellu scampaniu, ogni quartu d’ora, Cate?”.
“Ma che voleva di’? Non sonava a martellu, non sonava a mortu, non sonava a festa… Sarà pe’ chelle cose che disse l’aitru giornu i’ priore… ”.
“Ah, pe’ chella della televisione che deve venì a parlà?”. (Si riferivano a Claudia Koll).
“E c’era bisognu di sonà in chi’ modu? Mancu fosse l’Assunta”.
“Ma da venerdì non c’è la Festa de’ Censi?”.
“E che c’entra co’ oggi?”.
“Di che parlate? Delle campane?”. (Un’altra si è intromessa).
“Engià, ’Gnese. Vedi che cacche cosa senti!”.
“No, me l’ha detto la mi’ Checchina. Lei sta all’Arco e non ne poteva più. Cossì è venuta da me: “Ma’, c’emo datu, oggi. C’è i’ campanaru a controllà le campane. Mi dole i’ capu. Io magno da te””.
“Ah, ecco che era: i’ campanaru!”.
“Che bella serata, a parte le campane. A me tutte ’ste stelle mi fanno compagnia, da quanno è mortu i’ mi’ Peppe. La sera, prima di dormì, mi pare che lui mi guardi da lassù e non ho paura a stà da sola”».
- Certu, basta sentì i’ dialettu e ci sentimo a casa nostra!
In dialetto i nonni ci raccontavano le storie, i genitori ci parlavano della miniera e della guerra, e noi intorno alle fiaccole cantavamo le pastorelle. Ancora non avevamo compiuto gli studi e non ci curavamo molto della “lingua colta”.
«Quello era il tempo dei sogni, delle attese e del nostro grande amore cresciuto e consolidato tra i libri; nei castagneti, mentre cercavamo funghi tra baci e abbracci; al Prato della Contessa, dove non potendoci permettere le vacanze ci beavamo in estate catturando l’abbronzatura a 1.700 m; insieme a Carlo e Chiara, Anna e Andrea, i’ Rosso e Cipollina, con i quali parlavamo del futuro del paese, soprattutto dopo la chiusura della miniera e come farlo diventare luogo di turismo culturale. Ci arriveremo, vedrai. Ci sono tante sollecitazioni. Io, intanto, continuo a curare gli anziani minatori ammalati di cancro polmonare, a cercare di disintossicare i tossici e reinserirli nel lavoro, e favorire il recupero dei portatori di andicap, spesso adulti, affidati a madri vedove.
Con te, sono viva, lo senti. In fondo… è ancora ieri».
Lucia Visconti
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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