Il sentiero
“degli autori nuovi ed emergenti”
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In questa sottosezione della rubrica “Il Novecento e oltre”, si parlerà (pubblicandone direttamente le opere, oppure attraverso una serie di interviste, recensioni o monografie) di coloro che si stanno ultimamente imponendo sia alla critica sia al pubblico e che, dunque, son decisi a rivendicare per sé un poco di luce autentica, per non doversi riscaldare in eterno ad un sole misconosciuto.
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Predica in preparazione
alla domenica della Pentecoste
-Un racconto di Pierluigi Ambrosini-
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Nel basso Medioevo, per noi trapassato e quasi obliato, in una località che è preferibile sottacere — ci si limiterà a citare il verde che ne era incontrastato sovrano — una disputa si trascinava da decenni tra i frati domenicani e francescani. Chiodo ne era il possesso di una chiesa da ambedue gli ordini vantato, con argomentazioni, “sic ac simpliciter”, ineccepibili.
Certissimamente si trattava di un caso di ruggini mal sopite; se i preti regolari campano di elemosine e di questue, quando una moneta di sovrappiù si ritrovano nella saccoccia, lesti la trasferiscono in una tasca più indicata. La parrocchia oggetto della contesa era per di più — anche se a chi fece voto di povertà meno di uno zinzino dovrebbe importare — un edificio consacrato al Creatore, privo di fronzoli, affreschi, candelabri dorati (e pure di rendite derivanti dai campi attorno). Ma tant’era; l’esempio non dei più edificanti. I vescovi che si erano succeduti avevano tentato implorando sia l’intervento della Madre di Dio sia del buon senso ma, messi di fronte a rogiti e codicilli, si erano rifugiati nel silenzio e nella meditazione. Intanto i villani, che erano i più interessati ma anche i più dimenticati, per preservarsi dalle fiamme dell’Inferno ascoltavano messe e sermoni nel paese limitrofo, con un tragitto non troppo agevole né parimenti tranquillo.
Le acque si mossero allorché un vescovo fresco di calze viola si destò nel cuore della notte a causa di un sogno che gli aveva illustrato un giudizio di Dio sui generis, qualcosa che rassomigliava più indicativamente ad una disputa teologica acciocché la guerra avesse termine una volta per tutte. (Oltre allo Spirito Santo, un demonietto doveva averci infilato lo zampino visto che al vescovo venne suggerito di adoperarsi con ogni sua forza, quasi che in palio non ci fosse soltanto la fine della contesa, seppure intenzione più che meritevole, ma anche una possibile immissione nel senato ecclesiale per l’artefice di tanto prodigio).
Prima ancora che monsignor vescovo avesse avuto tempo e modo di convocare i due priori e renderli edotti circa i suoi sogni e le sue intenzioni, la notizia di una sfida da compiersi nel duomo giusto il giorno della Pentecoste aveva compiuto il giro della contea ed era penetrata nei conventi; i quali — per inciso — confinavano; dalle loro celle i frati di entrambe le regole dopo il vespero potevano ammirare, teneramente abbagliati dal sole che se ne dipartiva, il campanile della chiesa momentaneamente affidata alle ortiche ed ai citisi.
Superfluo sarebbe, dopo tali premesse, riferire il colloquio. Incredulità dapprima, poi costernazione, sgomento, timore, sdegno, panico (e... rabbia) si sparsero nel campo francescano. Umili servitori del Signore Iddio, costoro, avvezzi a tanti Pater e a tantissime Ave, a coltivare l’orticello, ad assolvere i penitenti tuonando, ma più di uno con il latino zoppicante.
Tutt’altra aria si respirava nell’accampamento avverso: la vittoria data per acquisita, secondo proba e probante giustizia divina; le parsimoniose parole non liturgiche i monaci se le scambiavano per interrogarsi, e neppure sottovoce, sul nome del confratello che avrebbe traslocato per recarsi a reggere la parrocchia, futuro e sicuro baluardo e stendardo dell’ordine. È notoria la vastità culturale di questi religiosi, il rigore delle loro prediche, la profondità delle loro citazioni, l’acume delle loro riflessioni, sicché come sarebbe loro avanzato del tempo per coltivare gli orti e potare i pergolati che s’intravedono nei retri dei loro chiostri?
I parrocchiani si limitarono ad un sospiro di sollievo. Parimenti i loro arti inferiori. Mentre le menti dei due priori erano agitate da “ben altro” pensiero. Quella del rettore dei domenicani non supponeva a quale santo rivolgersi per scegliere lo sfidante, tanti e tali gli aspiranti, tanti e quali i postulanti. Analizzò i meriti, le firme in calce alle lettere di presentazione, s’arrovellò, pregò (sbuffò), decise infine d’indire una sorta di concorso per titoli e per esami. Ne risultò trionfatore, al termine di una contesa non priva di colpi non troppo… cristiani, un asceta che si esprimeva in otto lingue, e con Dio in aramaico.
Il priore dei francescani, mentre il sole con puntualità calava e con altrettanta risorgeva, a maggior ragione dall’almanacco un santo non traeva, dal momento che il loro fondatore pareva averli abbandonati. Non si trattava di parlare ad un animale, cosa non inconsueta per i frati del suo ordine, si trattava semmai, ricorrendo ad una giravolta lessicale, di far esprimere un animale. Della selezione attuata dal duce nemico da tempo il miserando frate aveva appreso. Con un corso ultraaccelerato, giorno e notte, notte e giorno, forse avrebbe evitato ad un suo frate di finire in pasto alle belve qualora avesse recuperato una botte, alias un docente, per spillarvi due o tre gocce (non più) di vino da trasformare in buon senso per un confratello. Ma un docente, lui, dove l’avrebbe scovato?... Neppure otteneva consigli o suggerimenti, tanto meno comprensione od incoraggiamenti.
Con questi tormentamenti nell’animo il priore dei francescani procedette sino alla vigilia della Pentecoste. Minima consolazione aveva trovato nella preghiera, seppure vi fosse ricorso abbastanza fiducioso. La parrocchia la sapeva perduta per un incomprensibile disegno dell’Altissimo, ma la faccia dell’ordine andava salvata: un frate aveva l’obbligo di accalappiarlo e di spedirlo, magari imbavagliato, davanti alla griglia allestita da monsignor vescovo. Il suo monastero in quei giorni pareva essere diventato terra di epidemia; confratelli non ne incontrava nemmeno nel refettorio, mentre a lui uno ne bastava, ma quelli, tutti, tutti quanti, si erano serrati dentro le loro cellette, più oranti e più digiunanti che nel periodo quaresimale. Tutti.
O quasi. In giro, stupitissimo, si aggirava il padre guardiano. Costui aveva preso gli ordini minori, cioè non celebrava il sacrificio eucaristico; nonostante neppure tentasse di reprimere la pancia per i tanti panini che fagocitava di nascosto, la vanga la spingeva con lena insospettata, le pentole le riempiva e le puliva, i gradini dell’altare li lavava e ci passava la cera, i candelabri li lucidava: semplicemente nessun confratello si era degnato d’informarlo su quanto bolliva in pentola.
E fu su tale fraticello che si fissarono, obbligatoriamente, sia lo sguardo sia la decisione del priore. Uniti ad un’unica, ma ripetuta, raccomandazione affinché non si esprimesse, quand’anche sollecitato, che con dei sorrisi, prima di filarsela, lui, in cappella, abbandonando il prescelto con la bocca spalancata e le spalle doloranti per la costanza delle pacche ricevute. Con urgenza il priore intendeva implorare la Provvidenza affinché ad una parrocchia regalata non assommasse, per il suo viepiù incomprensibile disegno, l’onta.
Sorse finalmente l’aurora luminosa della Pentecoste con le vie che già erano un tripudio di popolino allorché, avvolto nel suo candido saio, il rappresentante dell’ordine dei santi Domenico, Damiano, Chiara, Caterina da Siena, Margherita d’Ungheria, Giacinto di Polonia, dell’Aquinate e parecchi altri, si avviò a piedi verso il luogo della formalità (aveva rifiutato la carrozza per gustare — scusabile debolezza di cenobita — a piccoli passi il saluto dei villici dopo avere gustato ad uno ad uno gli abbracci dei confratelli); allorché lo sperdutissimo ma ubbidientissimo rappresentante del Poverello, caricato il suo mulo di alcune provviste — al ritorno non avrebbe trovato molto brodo nella scodella: i confratelli non amavano cimentarsi con le padelle — partì nel silenzio e nella solitudine.
Ma la folla, generosissima, non gli negò il suo abbraccio e lo condusse, bestia compresa, sino al duomo dove, a fianco dell’altare maggiore, uno rimpetto all’altro, erano stati predisposti i due pulpiti. Come il ladrone del Vangelo venne issato su quello di sinistra; sull’opposto, braccia conserte, narici ad inspirare l’incenso, il rivale lo aspettava non celando l’impazienza per un’attesa che reputava tanto fastidiosa quanto tempo sottratto ai suoi tomi. (Che l’omuncolo, il padre domenicano si era domandato con un’interrogazione non usuale ma non per questo meno riprovevole, ricorresse a simili bassezze per tentare d’innervosirlo? Lo studioso era all’oscuro che il ritardo dell’avversario era stato causato dalle bizze di un mulo che nel giorno dedicato al riposo avrebbe gradito non mettersi in viaggio all’alba, sostenendo in aggiunta novanta e passa chili).
Esordì sua eccellenza con un’invocazione alla Vergine per un giudizio che riportasse il... buon senso. Seppe contenere, ma con indicibile fatica, la sua inclinazione oratoria al cospetto di una platea che era un mare di tonache bianche e non una marrone; anche sorpresissimo e curiosissimo di apprendere chi fosse quell’individuo, dall’apparenza babbea, che rappresentava l’ordine francescano. Non poco l’alto ecclesiastico sentiva la coscienza non lassa per avere contrapposto il seme alla gramigna tanto che, tre notti appresso alla fatale, destatosi a cagione di un secondo sogno, aveva precisato ai priori d’urgenza riconvocati, che la sfida si sarebbe svolta senza l’ausilio della parola.
All’asceta aveva affidato il compito dell’esordio. Costui levò l’indice della propria mano destra al cielo e dal cielo verso il curiazio; solerti gli replicarono due dita — indice e medio — di una mano grassoccia ed arrogante rivolte senza titubanza alcuna contro la faccia dell’avversario; che non s’infastidì e controbatté con indice, medio ed anulare sempre indicanti dapprima la cupola che dominava la navata e dalla cupola piombavano addosso al rivale.
«Eh, no! Eh, no! Indice e medio, medio e anulare, anulare e indice per virtuosismi delle tue dita e mia ubbidienza alla Regola accetterei di subirli» — parevano esprimere i concitati movimenti delle mani del fraticello — «Ma cacciarne tre in un paio di bulbi oculari chi (e dove, quando e come) poté mai?».
Un tantino meno imperioso il domenicano si girò verso monsignor vescovo e dichiarò, senza proferire sillaba, la sua momentanea incapacità di proseguire. Ma, con stizza e prontamente, estrasse una minuscola e luccicante mela; con altrettanta rapidità, dal saio del francescano apparve una bottiglia di vino agitata con perizia che raccolse l’urlo della canea giacché per la seconda volta l’illustrissimo antagonista, di colpo fattosi in volto ben più bianco del suo saio, si dichiarava incapace di controbattere.
Ancora un piccolissimo sforzo, padre benedetto da Dio, e la frittata sarà cotta e servita; questo incitavano gli occhi del popolo che aveva ritrovato il coraggio di parteggiare per il rappresentante dell’ordine più amato e la fede di pregare con un fervore non più celato. Tre difatti erano gli scogli da superare; chi per primo avesse raggiunto la quota, come da regolamento sottoscritto dai rettori in presenza di quattro testimoni estratti a sorte e di un notaro — lui pure deciso dall’alea — si sarebbe portato a casa la parrocchia. (Anche il popolo dei sai bianchi non disdegnava di pregare seppure con una voce mascherata. Si rivolgeva allo Spirito Santo, con insistenza lo esortava a debellare il Maligno apparso dentro sottane francescane. Come si potrebbe infine trascurare un mulo che a bocca spalancata ammirava le insospettate virtù del suo padrone, per il quale — ma esclusivamente a causa della mole — non aveva mai provato grandi afflati di simpatia?).
L’erudito scese dal pulpito e si avviò con un passo che mostrava una sicurezza alla quale neppure il preclaro uomo credeva verso l’altare più distante, illuminato da ceri innumerevoli. Rispettosissima, la folla si era scostata. Il frate si fermò, osservò, soppesò e scelse una candela. La portò sul suo pulpito con un procedere ancora più lento. Tenendola alta nella mano ed in avanti, la mostrò, la fece ruotare di 180°, indi la spense ustionandosi lievemente (anche se seppe, coraggiosissimamente, reprimere il lamento).
A due a due il dirimpettaio discese i gradini del suo pulpito, attraversò correndo la navata sino al medesimo altare, raccolse come fiori campestri i ceri e li spense sul posto, ma dopo avere insalivato i polpastrelli. Dalle urla e dagli schiamazzi apprese che il suo santo aveva compiuto l’ennesimo miracolo in un duomo che si era trasformato nel mare di Mosè. Le onde bianche si erano ritratte, ad esse si erano sovrapposte quelle di una platea esultante entusiasta estasiata, che racchiuse il vincitore ed il suo mulo in un abbraccio che possedeva la fragranza del pane appena sfornato.
Sulle ali di questo fragore e delle campane si spalancarono le porte già spalancate al rientro festante e festoso del vincitore, ma il vincitore del ritorno non era quello dell’andata, ai confratelli rogitanti sotto il portone parato, l’asceta spiegò infinite volte, e quasi ebbe l’impressione di doversi giustificare, di un teologo eruditissimo celatosi sotto lo straccio francescano, che quanto prima avrebbe smascherato e menato davanti al santo padre perché confessasse il suo sacrilegio e scegliesse l’eremo per trascorrervi, espiando, il resto dei suoi giorni terreni, comunque capace questo travestito di trarre dalla mela simbolo del peccato dell’umanità la redenzione grazie al vino dell’ultima cena, che purifica l’umanità per il tramite del sacrificio eucaristico, di un mistero che è il mistero dell’unità tramutatasi in trina nell’essenza di un Dio Padre-Figlio, e persino tanto infido d’affermare, questo studioso discepolo prediletto di Moloch, che le fiamme del peccato vengono spente e purificate (saliva uguale acqua) dal sacrificio penitenziale.
Terminò anche con una folla via via lievitante che scongiurava i monaci dell’altro convento di sganciare le stanghe e spalancare le porte al padre guardiano, urlando che quanto le loro orecchie ottuse intendevano era la voce che propagava la vittoria di Davide. Il fraticello si limitò a ribadire ai santi Tommaso accorsi, che ad un dito nell’occhio avrebbe risposto, per quanto l’atteggiamento fosse ben poco consono all’insegnamento del loro fondatore, con due dita, ma con tre... beh, se uno è così fessacchiotto da pretendere d’infilare tre dita in due occhi, e ci s’intestardisce... Come per la mela: ottimo frutto, ancorché minuto e nemmeno fra i più gustosi; più previdente lui si era portato appresso un fiasco del vinarello delle loro terre, mentre il pane ed il salame, per non umiliare troppo il rivale, non li aveva mostrati. «Eh, miei frati, quasi mi passava di testa... l’assiduo studio con buona probabilità causò al mio avversario un certo quale intorpidimento dell’intelletto giacché avrebbe preteso di spegnere una candela a mano nuda senza cagionarsi ustione».
… Perché davvero imperscrutabili talvolta appaiono i disegni di Dio onnipotente tanto da trarre in inganno anche i suoi servitori più devoti.
Pierluigi Ambrosini
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