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Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
Alessandro Ramberti, In cerca, Fara Editore, Santarcangelo di Romagna, 2004 
 
 
Nonostante abbia sempre pensato che la Poesia possa nascere ovunque, ho letto la raccolta di Alessandro Ramberti con un certo timore reverenziale. Il suo curriculum scolastico e lavorativo, nonché i numerosi premi e riconoscimenti ottenuti, hanno condizionato il mio approccio al suo verseggiare. Come poter commentare in maniera costruttiva un poeta senza avere la necessaria preparazione critica e letteraria? Dunque, ho scelto una via più “dilettantesca”, più semplice e comprensibile, l’unica che conosco. Da semplice lettore e appassionato di poesia ho trascritto le mie impressioni “a pelle”, le emozioni che Alessandro è riuscito a trasmettermi. Il tutto rinunciando ad addentrarmi in un terreno che non mi appartiene: quello della critica “alta”, professionale, troppe volte incomprensibile, quindi inutile. Perché la Poesia deve essere spontanea, la sua percezione e il suo metabolismo del tutto estranei alla ragione. 
 
In cerca è un diario di viaggio, il resoconto di un faticoso e lungo cammino verso la conoscenza del mondo esterno e di quello interiore dell’autore. Un diario disseminato di tracce e orme, un continuo movimento del corpo e dell’anima in molteplici direzioni. Ed ogni passo è vita vissuta, necessaria sofferenza e dolce memoria, quindi Poesia. “I piedi ricordano/ l’ultimo sentiero/ impolverati/ quasi un velo di zucchero”. Insomma, un lento e continuo girovagare, quasi un doveroso omaggio alle scoperte geografiche e interiori che si sono succedute nel tempo e a quelle future. Un elettrocardiogramma a futura memoria dell’uomo che siamo stati, che siamo e che saremo. Sempre con la giovinezza nel cuore, la fantasia nella mente, e con quel fardello di inadeguatezza e instabilità che permette di dare un senso al cammino intrapreso. “Pensate ad un ventenne solitario/ per le strade di una grande città:/ […] fate/ un po’ voi di cammino con lui/ e i passi affiancati diventeranno/ un senso”. Camminare e ascoltare, rallentare il passo e mettersi a disposizione di se stessi per cogliere ogni minimo fruscio dell’anima, come se stessimo ascoltando il petto di un uomo dal respiro leggero. Con coraggio e serenità “sediamoci, ascoltiamo il lato interno/ del corpo, contempliamolo così,/ senza fretta, attenti alle sue risposte [...]”. 
Il viaggio non esclude, anzi sottintende, la paura dell’ignoto. E all’ignoto Ramberti affida almeno due nomi: il Divino e il Male. Il timore del girovago è quello di non saper riconoscere il Divino e di non riuscire così ad affrontare il Male. Ed è come se attorno al poeta ci fosse solo silenzio, assenza di suoni e di suggestioni, il buio pieno di richiami sconosciuti e peccaminosi. Dov’è la luce di cui l’Uomo non può fare a meno? E pensare che basterebbe un piccolo bagliore per trasformare ogni parola e ogni gesto in qualcosa di utile! “Basterebbe un eccomi solo/ per fare di queste dizioni/ degli atti,/ dei passi/ un percorso,/ degli istinti/ un progetto”. 
Il protagonista del viaggio è dunque l’Uomo, inteso nella sua universalità e senza distinzione alcuna. Ramberti ne parla utilizzando svariate e suggestive metafore. Ecco allora comparire sulla scena diversi oggetti, tutti pronti ad accogliere, contenere, abbracciare, proteggere. Perché l’Uomo che cammina raccoglie dentro di sé immagini, sensazioni, esperienze e riflessioni come fosse un nido, un guscio o una coppa. Mentre il tempo passa inesorabile e frantuma i nostri fragili corpi, le nostre altrettanto fragili illusioni. “Ed intanto invecchia il nostro mallo/ pur continuando a pensarci in nuce”. 
L’Uomo parte, abbandona la propria casa. Non porta con sé alcun bagaglio, ma soltanto speranze e illusioni. I progetti, in fondo, sono una zavorra che non gli permette di cambiare direzione e di inoltrarsi su sentieri sconosciuti. Perché è perdendosi che si può trovare qualcosa, magari nascosto dietro un angolo o una curva minacciosa, forse dentro gli occhi di una persona talmente diversa da noi da sembrare un fratello di sangue. E a quel fratello lontano il poeta dice: “Sono qui/ stanco di chiedere/ e pronto all’ascolto”. E quel fratello risponde con la sua diversità, senza parole, offrendo un’altra prospettiva dalla quale osservare se stessi. La diversità come specchio, come superficie di un lago che riflette soltanto verità, soprattutto scomode e taglienti verità. 
Resta nell’Uomo la nostalgia per la propria casa e i luoghi dell’infanzia, che il tempo sgretola senza pietà. Costa fatica e sangue ritrovarli diversi da com’erano, consumati e ricomposti a futura memoria di un passato felice perché incosciente del dolore che la crescita comporta. Gli anni trascorsi in viaggio hanno fatto posto a un bosco impraticabile attorno ai muri della casa natale, ostruendo il sentiero per raggiungerla. Eppure, la nostalgia è lo strumento che permette al poeta di ritrovarsi là, bambino tra altri bambini, bambino tra gli adulti, adulto tra i ricordi. “Pochi decenni/ hanno composto/ in casuali piramidi/ travi sconfitte/ muri dilapidati”. 
Della transizione dal luogo di partenza a quello di arrivo non restano che poche tracce. “Come un dado rotolante col destino/ ho lasciato poche tracce del passaggio”. Una parsimonia di passi che si fa poesia succinta. Pochi versi a significare che non servono tanti giri di parole per venire al “dunque”, a quel luogo di arrivo cui Ramberti affida la sua raccolta poetica. 
Ma qual è il luogo di arrivo dell’Uomo? Quale l’oggetto della sua ricerca? Di certo non si tratta di un luogo fisico, di un paese o una città. Ancor meno si tratta di una persona, un compaesano o uno straniero, anche se di tutto e tutti si conservano ricordi ed esperienze. “I luoghi visitati mi hanno inciso/ fino a farne la mia topografia”… “incontro un missionario piemontese/ che pare ad aspettarmi lì da sempre”… “Imprimo ciò che vedo [...]”. 
In sostanza, è un sentimento il porto in cui Ramberti desidera trovare rifugio. Un sentimento che “in Principio sembrava inspiegabile”, ma che alla fine si disvela come unica via per arrivare a conoscere se stessi e gli altri. È l’Amore, inteso in senso pieno, universale e completo ad aprire il cuore e l’anima verso l’esterno, a trasformare l’Uomo in un’antenna pronta a captare il più piccolo segnale proveniente dall’ignoto e dall’aldilà. 
Per alcuni, i più fortunati, la ricerca è infinita. Perché “la vita è un fine/ che non si può risolvere/ — un temporeggiare/ l’ansia nascosta del respiro”. 
 
Arrivata alla fine del diario poetico rambertiano mi sono voltata indietro, a scorgerne le orme. Ho visto una lunga scia luminosa disseminata di ombre e di colori tenui, quasi un cordone ombelicale ad unire il passato e il presente dell’autore. E Ramberti scrive di sé e degli altri con tocchi leggeri, quasi timidi, ma che non hanno paura di scavare a fondo nell’anima, là dove i luoghi si fanno più scuri e indistinti. 
In alcune liriche Ramberti è didascalico, quasi ungarettiano, tutto proiettato a dire senza usare termini inutili. Sembra una necessità vitale la sua, quella di arrivare come un proiettile dentro lo stomaco del lettore. Ma è un bisogno che non rende giustizia alle suggestioni che altrove l’autore sa evocare. Perché è proprio nelle poesie più distese e accoglienti che si percepiscono i profumi e i suoni dei luoghi visitati. Per cui ecco che la Macao del 1985 ci appare davanti agli occhi come per incanto, seppur diversa da allora, “[...] distante, ultima, assolata,/ umida, sonnolenta”, ma con ancora addosso “[...] il calore da sauna/ i personaggi nell’afa scialba/ […] il gusto della zuppa/ in quel posto fuori mano”. 
In cerca è una raccolta preziosa per i suoi contenuti, godibilissima per lo stile poetico adottato, suggestiva per le metafore e i termini utilizzati. A liriche brevissime se ne inframezzano altre, dove Ramberti mostra la sua capacità di rendere concrete quelle emozioni che, prima o poi, tutti gli uomini hanno la fortuna di provare nella vita. Nel complesso, un diario di viaggio senza date, che non teme lettura e si offre nudo agli altri. “Sono qui/ i messaggi imbustati/ pronti per l’invio./ (li ho già affrancati)”. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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