Una recensione
a cura di Antonello Vanni
|
L’abbandono, ma potremmo anche dire la “distanza partecipata” che si incarna nella parola, è lo strumento scelto per conoscere il reale dal poeta valtellinese Massimo Bevilacqua — nato nel 1975 a Morbegno (Sondrio) — nella sua raccolta Morfologia dell’abbandono. Quasi canzoniere che raccoglie i ritmi tra “[...] le estati così lunghe/ da ragazzo [...]” e “[...] le estati concentrate da semiuomo”, l’opera matura nella rêverie del tempo (un “supplizio delle braci o quanto resta sotto i tagli a macerare” o ancora “[...] lame/ taglienti come sciabolate sul presente [...]”) per fare spazio all’Altro, che sia la propria donna, un padre, il figlio, gli oggetti, la vita quotidiana di una bocciofila. In questo terreno d’incontro, creato appunto attraverso l’abbandono, che è anche distanza e generosa perdita, l’Altro parla, e attraverso la voce del poeta, ci parla. È la donna, misteriosa immagine nelle Partenze dal Sonno, che proprio “nella distanza” era afferrata già dagli inizi della formazione discorsiva letteraria italiana sull’amore, e perché no sull’eros maschile, spesso confuso con altro anziché coltivato e insegnato nella sua nobiltà: “Hai chiuso le frasi possibili/ nella schiena che spacca alla vista/ la fine del letto […]/ [...] spetta a me ora decidere una posizione/ ed incastrarmi umido/ fra le tue seccature […]/ aquilone che parti sempre/ senza un segno sussurrato”. È il figlio, nelle pagine delle Distanze parentali, che il padre coglie mentre si osserva in quella dimensione della paternità che attraversa — nella “tacita offerta”, come direbbe Montale — l’origine e il destino del figlio: “Fuori dalle crepe, dall’altra parte delle cose/ lanciarti nel mare, portare tuo figlio/ a funghi e tesserti a lui per non cadere./ Un tormento di realtà […]/ [...] Forse queste le cose/ che nell’abbraccio si staccheranno”. Ed è il dolore di un padre, nei Passanti ed altri quasi sconosciuti, che Bevilacqua raccoglie mentre cade, per travasarlo nelle mani del lettore, trasformando l’individuale in universale: “Parlava di suo figlio perso dopo quattro anni/ di occhi lucidi e viso prosciugato,/ me lo posso immaginare. Lui padre sopra/ i suoi destini di figlio a spalare ricordi/ e sperare. […]/ [...] Questo pomeriggio,/ era scesa neve e nessuno lo voleva,/ il ruolo che gli cadeva dalle mani [...]”. Ed è “la coltre d’aria pesante, di fumo e di briscole”, che si abbandona allo sguardo del poeta riempiendolo delle traiettorie della vita di uomini, comuni, mentre “le carte convogliano le voci per dirsi una rabbia lavorata e appiattita e gli uomini sognano di racchiudere nel gioco tra l’occhio e la mano/ tutte le distanze della terra, sognano senza saperlo, […] che tutto sia guaribile”. E forse, almeno in parte lo è guaribile, anche se “il vetro è così spesso e l’inganno delle distanze senza passi/ per coprirle”, guaribile forse proprio nella ripresa del poeta, in abbandono e distanza, dei “[...] sogni grezzi/ che rimbalzano feriti nelle memorie [...]”, o meglio, nella cura di sé che passa per il tempo: “[...] Ho da darti un’altra notizia,/ stiamo chiudendo i conti e l’afa non vuole finire/ neppure dopo un temporale. Il tempo ha delle/ croste ed io il mio bisogno di grattare”.
Antonello Vanni
|
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
È vietato l’uso commerciale e la rimozione delle informazioni di Copyright
![]() |