Una recensione
a cura di Renata Ballerio
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Occorre essere disarmati, cioè coraggiosamente soli, senza pregiudizi, perfino senza eccessivi strumenti interpretativi per entrare nel libriccino di Marcello Ghione. Il denso impasto linguistico del ternano, classe 1928, a più livelli vitalmente provocatorio in queste poesie selezionate da Dario Bellezza e presentate da Giuliano Manacorda, invade la mente del lettore. Due sezioni compongono Scherzando con la musa: Umoristico-lessicali (ovviamente le poesie) e Umoristico-surreali.
La prima provocazione, che è poi la prima domanda che si pone un lettore, è data dal termine “umorismo”. Sarà proprio come sosteneva Carlo Dossi che “l’umorismo è la letteratura dello scetticismo” e che “gli umoristi dicono” — in generale — “cose savie vestite da pazzia e pazzie vestite da saviezza”? Troveremo, dunque, nelle poesie di Ghione scetticismo, saviezza e pazzia? Forse, se accetteremo fino in fondo e agonisticamente la sfida. Ma ben altre sono le provocazioni che si devono affrontare durante la lettura. Prendiamo i versi tratti da La sfilata, testo di apertura della seconda sezione. “In testa al corteo/ le ricotte dell’Alsazia/ suonano cornamuse isteriche./ [...] Una vecchietta, commossa,/ masticando lucertole,/ piange chiodi di garofano”. Si tratta di un accumulo burchiellesco che porta anche il lettore più attento dentro una vertigine generata dall’imprevisto, in cui sintagmi logicamente impossibili si abbracciano ad immagini visionarie, da Arcimboldi del Novecento. Forse c’è davvero negli apparenti deliri verbali di Ghione un ironico scetticismo, che è — a ben guardare — una pazzia terribilmente seria. Le provocazioni dei versi umoristico-lessicali, per lo più con verbi al passato, sembrano dichiarare la sconfitta di ogni linguaggio razional-logico-emotivo di fronte al caos del reale e della storia. Tutto si accumula come in Scorie liceali in cui “Lungo la spiaggia/ dei congiuntivi,/ le idee di Platone/ passeggiano discinte/ sotto lo sguardo indiscreto/ d’anacoluti indeclinabili [...]”, generando una Solitudo grammaticalis (“L’avverbio si sentiva solo,/ nessuno aveva aggettivi per lui”). Soli anche noi di fronte al caos. Ed ecco che la seconda sezione si anima — costantemente al presente, cioè per cogliere quell’attimo che (come afferma un bellissimo titolo) sgranocchia il tempo — di nuove provocazioni. “[Le locuste nere] Cedono al sonno,/ ma prima di dormire/ accendono fuochi di pruriti surreali/ per tenere lontano/ gli assalti degli Dei Olimpici,/ da troppo in Cassa Integrazione [...]”; e ancora (come nella conclusione di Conditio sine qua non, titolo che inchioda ad una negatività a cui forse soltanto l’umorismo surreale tenta di resistere): “Una morale?/ Non bisogna mangiare i pedalò/ se il cane grattugia spirali”. Sberleffo dissacrante alla Palazzeschi? Forse, certamente salutare capacità di farci accettare il nonsense se vogliamo credere che la torre di Babele non è una condanna. In questa vertigine di immagini, di sintagmi apparentemente assurdi e lampeggianti, quindi imprendibili, si trova anche una debole, intermittente narrazione d’amore tra Aulo che “aveva contusioni d’amore” e Aprica, “ormone fatiscente/ di meduse oniriche”. Se l’umorismo italiano è per Dossi sensuale, Ghione riesce a vitalizzarlo con un linguaggio veramente surreale. Ma noi lettori, ormai calamitati da questo serissimo gioco linguistico, dobbiamo rinunciare a spiegare l’inspiegabile perché altrimenti diventeremmo come Aprica che “[...] nuda di solitudine [...]” vorrebbe chiedere davanti allo specchio chi sia la più bella del reame. Noi non chiediamo altro alle poesie di Ghione, perché — come per i santi — anche con le muse non si può scherzare troppo.
Renata Ballerio
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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