Il sentiero
“degli autori nuovi ed emergenti”
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In questa sottosezione della rubrica “Il Novecento e oltre”, si parlerà (pubblicandone direttamente le opere, oppure attraverso una serie di interviste, recensioni o monografie) di coloro che si stanno ultimamente imponendo sia alla critica sia al pubblico e che, dunque, son decisi a rivendicare per sé un poco di luce autentica, per non doversi riscaldare in eterno ad un sole misconosciuto.
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Il sarto dei balocchi
-Un racconto di Lorella De Bon-
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“Eusebio di Cesarea all’imperatrice Costanza: «Egli ti ha una volta per tutte insegnato che nessuno conosce il Padre eccetto il Figlio
e che nessuno conosce degnamente il Figlio se non il Padre che l’ha generato»”.
(Daniele Menozzi, La chiesa e le immagini, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995)
Era l’estate del 1973. Una stagione troppo calda, che faceva dire ai vecchi del mio paese di non avere mai visto un’estate come quella in tutta la loro vita. Intanto, sudavano copiosamente sotto i cappelli di paglia consumati dal sole. Sudavano senza muovere un solo dito, nel timore di sprecare l’energia necessaria a malignare sui vicini di casa, meglio se donne. Belle, ovviamente, perché le brutte non avevano segreti o bugie da nascondere.
I vecchi chiacchieroni non facevano altro che osservare ogni minimo gesto di chi gli passava accanto, nella speranza di cogliere un piccolo particolare che smuovesse in loro qualcosa. Forse un’emozione dimenticata. Forse un accenno di eccitazione che li precipitasse indietro nel tempo, a quando la carne si dimenava come frittelle nell’olio bollente.
Ero solo un bambino, ma di pettegolezzi ne avevo già sentiti troppi. Nell’estate del 1973, però, quei pettegolezzi raggiunsero un livello insopportabile anche per le orecchie più refrattarie.
Un giorno papà rientrò verso le 8 di sera. Un orario rispettabile per una persona che lavorava tanto come lui. Faceva il sarto e aveva bottega in paese, all’imbocco della via principale. Una posizione strategica, dato che la gente doveva per forza passare davanti alla sua vetrina per recarsi in centro. Gli affari andavano bene e papà era benvoluto da tutti, specialmente dalla Marisa, la padrona del Bar Centrale. E dai suoi avventori, accaniti giocatori di carte e incalliti perditempo. E poi, c’erano i bambini. Sì, i bambini. Perché papà era bravissimo a confezionare balocchi.
Papà non rientrava mai alla stessa ora, per cui mamma non sapeva con certezza quando avrebbero cenato insieme. Io mangiavo prima, da solo, in camera mia. Vederlo mi faceva paura. Ero terrorizzato all’idea che potesse rincasare ubriaco.
Quando beveva, papà si trasformava in un’altra persona, o meglio in qualche animale feroce, di quelli che stavano in bella mostra nel mio libro di scienze e nelle teche del laboratorio del professor Bartolini (pace all’anima sua). Un giorno, mentre spolverava i suoi reperti incartapecoriti, venne colpito da un infarto. Lo trovarono dopo una settimana, perché aveva detto in giro che sarebbe andato da sua sorella, giù in città. Era disteso sul pavimento. Gli occhi e la bocca sbarrati. Puzzava come una carogna.
Ops… scusate. La mia mamma è stata molto chiara quando ha detto, prima che uscissi di casa: «Non è educato parlare senza essersi presentati prima. E non rivolgerti a degli sconosciuti. Potrebbero essere cattivi e farti del male». Ma voi non siete cattivi, vero?
Bene. Allora mi presento.
Sono rinchiuso in questa prigione da sei mesi ormai. E chissà quanti altri ne dovrò passare qui dentro, immerso nell’oscurità di una condanna inspiegabile.
In quale città mi trovo, non ha alcuna importanza. Chiamatela Distrofia o Incoscienza o come volete. Fa lo stesso.
Il mio nome? Non lo ricordo più. Chiamatemi Primo o Ultimo o una via di mezzo. Fa lo stesso.
È il mio spazio, ridotto a 2 m x 2, a fare la differenza adesso.
Mi sono concessi solo trenta minuti d’aria al giorno, come fossi un cane da far uscire di casa perché non sporchi il pavimento.
E pensare che non riesco più nemmeno ad andare in bagno. Che se potessi, cagherei tutto l’odio che ho dentro, senza tirare la catena.
Ero puntuale come un orologio svizzero, sia sulla tazza che all’università. Non mancavo mai a un appuntamento, per quanto irrilevante potesse essere. Perché il rispetto degli altri è la prima cosa. La prima e l’unica.
Eppure sono stato accusato di ritardo mentale premeditato, con le aggravanti, e quel giorno al processo anche l’avvocato della difesa era contro di me.
Sono sempre stato al centro dell’attenzione, mentre adesso mi confondo con i muri di una cella sporca e umida. La mia pelle ha lo stesso colore del pezzetto di cielo plumbeo che riesco a malapena a intravedere tra le sbarre.
Solo qualche parola di circostanza con i secondini, quegli stronzi, tanto per condividerne il silenzio e la noia. E il fetore che esce dalle cucine insieme al cibo.
Ho ghiaccio nelle ossa, cave come quelle degli uccelli. La mia pelle trasuda umidità e dalle crepe si intravedono fantasmi. Forse sono soltanto un uccello incapace di volare o il muro di un edificio diroccato. Voglio volare, voglio andarmene da questo posto che puzza di escrementi e di morte. Carne. La mia carne sta marcendo insieme al cervello. Qui dentro tutto si decompone prima del tempo. Perché il tempo in prigione corre più veloce. E le sbarre riescono solo a frenare il cielo.
A franare il cielo.
A
farmi
franare…
Le lettere di mia madre si sono fatte sempre più rade (come i miei capelli, che cadono uno a uno nel lavandino). Lei si vergogna di me e si dispera per se stessa.
Adesso per la strada tutti l’additano come la genitrice di un ritardato, colei che ha messo al mondo un essere col cervello deforme racchiuso in un corpo normale.
Qualcuno mi ha detto che sta imbiancando come un albero che si copre velocemente di neve. Il suo corpo si è prosciugato, lei che è sempre stata una donna robusta e rotonda.
Non riesco a immaginarmela senza tutto quel grasso, accumulato grazie a dieci gravidanze portate a buon fine e quattro aborti. Io sono l’ultimo di dieci fratelli, tutti maschi. Il più piccolo, il più sfortunato.
Ninna nanna ninna ò questo bimbo a chi lo do
lo darò alla fatina che è sempre più meschina
lo darò all’orco rosso che lo picchia a più non posso
lo darò all’uomo nero che lo mangia tutto intero
Chissà se la mia cameretta è ancora in ordine come l’ultima volta che l’ho vista. Spero che nessuno abbia preso la mia collezione di figurine, perché mi mancano solo due pezzi a completare la raccolta (Sivori e Mazzola). Due pezzi mancanti, quelli che gli strizzacervelli non mi trovano in testa. Ecco perché mi accusano di furto e occultamento del corpo del reato!
Volevo fare il poliziotto da piccolo, mentre adesso mi ritrovo chiuso in prigione, sorvegliato giorno e notte attraverso una piccola feritoia, più piccola del buco del culo. Dicono che potrei nuocere a me stesso, che sono pericoloso e incontrollabile.
Sono tutti matti qui dentro!
Mi osservano come un animale in gabbia, ultimo esemplare di una specie in via d’estinzione.
Stamattina, mentre facevo colazione, ho sentito gli altri carcerati parlare di me. Gli sfigati sghignazzavano e dicevano che sono un parricida. Ma io non so cosa significhi questa parola. Così ho chiesto un vocabolario, ma il giro dei libri è previsto solo tra due giorni. Anzi, nel mio caso solo tra due mesi. Se tutto va bene.
Vorrà dire che aspetterò di sapere chi sono.
La prigione ha una biblioteca grandissima e piena di libri di ogni genere. Molti si sono laureati qui dentro grazie a quei libri. Anch’io volevo laurearmi. Volevo passare giorni e notti intere sopra quei fottutissimi libri. Consumarmi gli occhi e le labbra. Invece, sono costretto a piegarmi a 90° di fronte al direttore per stringere un foglio di carta tra le mani. Non la carta igienica. Quella, per fortuna, è gratis.
Mi hanno punito con l’isolamento, dove non si può leggere. Solo respirare e sognare e cagare.
Una punizione troppo severa per avere infilzato l’occhio destro di quel rompiscatole di un secondino con una forchetta. E per averla messa nel piatto di spaghetti del direttore.
Adoro il profumo dei libri. E la luce del sole che filtra tra gli alberi. Odio l’odore del sangue. E l’oscurità degli occhi chiusi.
In attesa che accada qualcosa, scriverò una lettera a mio padre. Non conosco il suo nuovo indirizzo. Da quando se n’è andato di casa non ho più avuto sue notizie.
Voglio chiedergli come si trova con la sua nuova compagna, se picchia anche lei come faceva con mamma. Voglio sapere dei miei nuovi fratelli e del suo nuovo lavoro (pare faccia l’imbianchino adesso). Soprattutto, voglio chiedergli perdono per avergli aperto la testa in due quella sera che è rientrato a casa ubriaco.
Non era mia intenzione fargli del male, ma quando ho visto che spezzava le braccia a mamma, il mio cervello ha cominciato a ragionare come non aveva mai fatto prima.
Devo proprio scrivere a mio padre per metterlo al corrente di quello che è successo. Forse lui mi può tirare fuori da questo lurido posto…
Caro papà, tu eri il sarto dei balocchi e tornavi a casa nel mezzo della notte.
Io, ti aspettavo con le mani sugli occhi per non vedere il tuo viso ubriaco.
Ma le mie orecchie sentivano le scale scricchiolare sotto i tuoi passi incerti.
E la mia mente vedeva il sangue gocciolarti piano piano dalle mani.
Le mani che costruivano balocchi nella sartoria del paese più triste del mondo.
È una sfida alle stelle il buio dipinto sulle pareti di questa cella. Il buio disteso sul mio corpo come una coperta di nuvole. In eterno movimento. Alla ricerca della libertà perduta.
Lorella De Bon
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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