Sofferenze del femminile
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Gli interessi letterari hanno spinto Rossella Conti, psicoterapeuta che coordinerà questa rubrica, a considerare le protagoniste dei romanzi quali esponenti emblematiche delle strutture psichiche femminili, nel senso in cui Freud — indicando peraltro la formazione letteraria come fondante per lo psicoanalista — sottolinea che poeti e romanzieri arrivano a penetrare l’animo umano, là dove il sapere medico si arresta.
Ecco la premessa da cui nasce “Sofferenze del femminile”, spazio tematico appositamente ideato per raccogliere testimonianze e confronti sull’ipotesi di lettura di quella certa deriva che può prendere la follia amorosa declinata al femminile.
Sull’inedito L’ombra del rifiuto; donne e follia, che appare di seguito, s’invitano i lettori (ma in particolare le lettrici) a esprimere un parere, tramite l’invio di lettere, messaggi, opinioni, quesiti. Il recapito e-mail di riferimento è staff@labileabile-traccia.com.
Chiunque voglia contribuire alla rubrica con propri materiali inediti (saggi, recensioni, racconti, poesie), deve consultare questa pagina.
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L’ombra del rifiuto; donne e follia
-De la plus belle à la poubelle1-
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“Ma sanguina ormai la regina in un tormento pesante,/ nelle sue vene nutre una piaga, da chiuso fuoco è consunta./ Grande il valore dell’uomo, grande le assedia la mente/ la gloria del nome: è fitto in cuore quel volto,/ la voce: placido sonno non dà alle membra il tormento”2.
Che cosa spinge le donne alla follia amorosa, al fol amour, fino all’annientamento, al suicidio? Quante Didone, Anna Karenina, Emma Bovary approdano ai nostri studi di psicoanalisti, o alla più semplice posta del cuore — diventata oggi lettera allo psicologo/psichiatra — mostrandosi in una folle deriva che sembra non conoscere possibilità di arresto? Nelle conversazioni fatte con alcune amiche colte di letteratura3 su ciò che avrebbe portato Emma Bovary ed Anna Karenina al suicidio, mi sono spesso sentita obiettare che si trattava di donne soffocate dal “matrimonio borghese” nella società ottocentesca. La mia esperienza clinica con le donne, e siamo nel terzo millennio, mi indicava una via diversa. Si tratta di una questione che attraversa i tempi: ecco perché Didone, situandosi piuttosto “fuori tempo”, in un discorso prelinguistico e prepolitico4, ci fornisce la possibilità di dare al discorso una profondità strutturale, permettendoci di intravedere che cosa si trovi alla base dello scatenamento della follia amorosa nelle donne (si badi bene, non del più temperato dolore della perdita, ma di una smania, una frenesia di trattenere l’amato che inizia con patetiche richieste di conferma amorosa, che tediano l’amante, fino ad arrivare al furore, con conseguente svilimento e rifiuto, all’annientamento di sé e al suicidio). Seguiamo il testo: Enea non ci farà una bella figura. Veniamo a sapere che Didone si concede all’eroe che non esita a considerare pari a un dio: “«Che straordinario ospite m’è venuto in palazzo,/ che portamento, che forza nel cuore e nell’armi!/ Credo, certo, non è fede vana: è stirpe di dei»” (corsivo mio)5. Evidenti il fascino dello straniero, i tratti di idealizzazione che descrivono l’ospite come straordinario; il trasferimento della sua virtus guerriera su una supposta generosità del cuore; l’atto di fede nel conferire all’uomo sconosciuto i caratteri di un dio.
«Ma se è Dio ad abbandonarti, allora non resta che il suicidio, perché non hai più nemmeno la fede», diceva di recente una mia paziente lasciata sgomenta e incredula da un giovane che le era stato compagno di vita per alcuni mesi e se ne era andato senza una ragione, almeno per lei.
L’incontro amoroso con Enea viene consumato sotto gli auspici di una passione, che ha scosso i sensi di Didone, assopiti dalla lunga vedovanza: “«Anna, te lo confesso, dopo la morte del misero sposo/ e la strage fraterna, che la casa m’insanguina,/ egli solo ha scosso i miei sensi, m’ha fatto tremare/ il cuore. Oh, della fiamma antica i segni conosco!»”6. È già delineato, nel modo struggente di rivolgersi alla sorella, cui viene affidata la confessione amorosa, il mondo delle cure e degli affanni del cuore, declinato al femminile, in discorsi tra donne, tra sorelle-amiche, dove la confessione è già annuncio di morte che Anna non può cogliere. Altro tratto preliminare alla follia amorosa è la “totalizzazione” dell’amore da parte della donna, l’eclissare gli altri suoi interessi, il fare dell’amante l’Uno, non interrogandosi sul desiderio dell’Altro7 e chiamando nozze la propria illusione amorosa: “Quel giorno fu il primo passo alla morte, la causa/ prima dei mali: non gli occhi, non cura la fama,/ non pensa Didone, oramai, a un amore furtivo:/ nozze le chiama, nasconde con questo la colpa”8. Come dire: si avvita sul proprio “sognare a occhi aperti”, smentita da un attualissimo Enea che, al momento in cui decide di andarsene, lo sottolinea in modo crudele: “«Sul fatto non ho molto da dirti. Non volevo, non crederlo,/ la fuga nasconderti; non ho mai alzato, del resto,/ face nuziale, mai sono entrato in un simile patto»”9. E per lui la storia si chiude qui, come a dire che non si sente responsabile, poiché tra i due non era stato formulato un patto simbolico; in fondo Didone risulta agli occhi di Enea una sognatrice, una che si è creata un mondo di illusioni. Didone è dunque respinta, per sempre, e precipita nel furore e nella follia: “«[…] Miserabile, naufrago/ io l’ho raccolto, io, pazza, l’ho messo a parte del regno,/ […] Ah, che delirio di rabbia!»”10.
In questo non molto dissimile da Emma Bovary: è proprio sul punto dello “scatenamento” della follia amorosa che sono andata a cercare Emma per trovarvi i tratti comuni.
Léon decide di lasciare Emma quando un collega gli fa notare la sconvenienza della sua relazione con la donna e le chiacchiere cui avrebbe dato luogo: lo sorprendiamo a pensare che “una tresca del genere avrebbe nuociuto più tardi alla sua posizione”11… analogamente a Enea, che ha da fondare una città… altri interessi, altre missioni. L’amore non è “totalizzante” per l’uomo.
La situazione precipita, l’unico problema per Léon è: “«Mais comment pouvoir s’en débarrasser»”12.
Anche per lui, la storia si chiude di colpo. Emma sarà respinta. Ma è da Rodolphe che la donna riceve il colpo più crudele, quando le rifiuta il prestito che la salverebbe dall’usuraio. In questo rifiuto Emma si sente rifiutata come “donna”. Qui cogliamo il tratto del suo amore totalizzante: “«E io, invece, ti avrei dato tutto, avrei venduto tutto, avrei lavorato con le mie mani, avrei mendicato sulle strade, per un sorriso, per uno sguardo, per sentirmi dire: “Grazie”»”13. Solo poche righe più avanti la troviamo inabissarsi nella follia; uscendo dalla casa di Rodolphe, Emma va alla deriva: “Lei uscì. Le sembrava che i muri ondeggiassero, che il soffitto le franasse addosso; ripercorse il lungo viale, inciampava nei mucchi di foglie morte che il vento disperdeva”14. Emma non è più la stessa. Il viraggio alla follia si è compiuto con il rifiuto di Rodolphe: “Rimase immobile, smarrita nello stupore, cosciente di sé unicamente per il battito delle arterie [...] Il terreno sotto i suoi piedi era molto più di un’onda, e i solchi somigliavano a immense ondate scure che si andavano infrangendo. […] Si sentiva rapita dalla follia e ne ebbe paura, tentò confusamente di riprendersi; non ricordava per nulla la vera causa del suo orrendo stato, cioè il denaro”15. Fino all’inabissamento: “Allora la sua situazione le si presentò come un abisso, nella sua irrimediabile evidenza”16.
Tutto si confonde, Emma, come Didone, perde la nozione della “causa” all’origine della rovina, si smarrisce, si confonde, si perde. La cognizione della “causa” della rovina sfugge, prevale l’inabissamento, il mondo che va in frammenti, il crollo dell’ideale e del supporto fallico.
Attraverso la chiave d’accesso del “rifiuto” supposto nell’amante si apre la porta della follia amorosa anche per Anna Karenina: “Ma quello sguardo freddo, severo, con cui egli l’aveva guardata quando era venuto ad annunciare la sua partenza, l’aveva offesa, ed egli non era ancora partito che la calma di lei era già distrutta”17. Anna spia il rifiuto nello sguardo di Vronskij e crede di leggervi il segno di una progressiva quanto irreparabile ripulsa: “E benché si fosse persuasa che cominciava il raffreddamento tuttavia non aveva nulla da fare, non poteva mutare in nulla i suoi rapporti con lui”18. Non tollera che lui abbia altri impegni, che vada a trovare maman, che esca per una serata a teatro senza di lei, arriva a ipotizzare che lui la detesti: “«Egli mi odia, è chiaro»”19; nel crescendo del delirio di gelosia arriva a congetturare che abbia un’altra donna (“«Ama un’altra donna, è ancora più chiaro»”20) e da qui non le resta che concludere: “«Perciò tutto è finito […]»”21.
Il desiderio di un amore che sia totalizzante e la consapevolezza che in questo tipo di pretesa è forse anche contenuta la causa del rifiuto risuonano drammaticamente nelle farneticazioni di Anna che precedono l’atto finale: “«S’io potessi esser qualcosa d’altro, oltre all’amante che ama appassionatamente le sole sue carezze; ma io non posso e non voglio essere null’altro. E con questo desiderio io suscito in lui la ripulsione, e lui in me il risentimento, e non può essere altrimenti»”22.
Anna, come Emma, come Didone, ripercorre il circuito dove si dispongono, tutte, come pedine di un gioco crudele che le trova nella posizione all’entrata di essere la più bella, per arrivare alla casella di uscita in posizione di scarto, di rifiuto dell’altro, donna spazzatura da buttare, buttar-si, sotto un treno, ad esempio.
Rossella Conti
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1 Il sottotitolo in francese, è pressoché intraducibile in italiano: “dalla più bella alla pattumiera” ovvero dal sentirsi la “preferita”, al rifiuto, all’essere/sentirsi gettata nella pattumiera (la “poubelle”). Ho dedotto logicamente questa metafora (o meglio matema: A
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2 Virgilio, Eneide, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1967, libro IV, vv. 1-5.
3 L’idea di sviluppare la tematica “donne e follia” è nata — durante la settima edizione de “La Milanesiana” — da una indimenticabile serata del luglio 2006 al teatro “Dal Verme” di Milano, dove Anna Caterina Antonacci intonava arie da Les Troyens di Hector Berlioz (anche lui suicida, sebbene salvato in extremis); e da qui i riferimenti alla Dido and Aeneas di Henry Purcell (“La Scala”, luglio 2006). Da allora la pratica (che ancora resiste) del piacevole-doloroso conversare del disagio delle donne e di letteratura con altre donne che ringrazio: Maria Elena Daverio Tonello, Elisabetta Braga, Marcella Cannalire, Marisa Napoli, Lea Edith Cohen-Tanugi.
4 “[le donne] secondo Aristotele sono destinate […] a essere confinate nella zona prelinguistica e prepolitica della casa […]” (Elena Pulcini, Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Bollati Boringhieri editore, Torino, 2003, p. 32).
5 Virgilio, op. cit. (vedi nota 2), libro IV, vv. 10-12.
6 Virgilio, op. cit. (vedi nota 2), libro IV, vv. 20-23.
7 “[…] il suo godimento la impegna in una logica di assolutizzazione dell’amore che la spinge in direzione di una insaziabile ricerca dell’Altro” (Colette Soler, Quel che Lacan diceva delle donne. Studio di psicoanalisi, trad. it. di Graziano Senzolo, FrancoAngeli Edizioni, Milano, 2005, p. 183).
8 Virgilio, op. cit. (vedi nota 2), libro IV, vv. 169-172.
9 Virgilio, op. cit. (vedi nota 2), libro IV, vv. 337-339.
10 Virgilio, op. cit. (vedi nota 2), libro IV, vv. 373-376.
11 Gustave Flaubert, Madame Bovary, trad. it. di Roberto Carifi, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 270; ma vale la pena comparare la traduzione di Carifi con quella di Natalia Ginzburg, che — realizzata per Einaudi — suona a volte del tutto differente (cosa di cui mi sono accorta a posteriori, andando a confrontare le due versioni con il testo in francese). Merita forse notare che il primo traduttore è un uomo, e il secondo una donna; è stato così inevitabile chiedersi se i traduttori, magari, non siano stati diversamente orientati dalle rispettive sensibilità maschile e femminile nella resa dei sentimenti dei protagonisti del romanzo.
12 Gustave Flaubert, op. cit., Le livre de poche, Parigi, 1983, a cura di Béatrice Didier, p. 325; sono le precise parole che Flaubert riferisce ai pensieri di Léon, quando Emma sembra diventata per lui solo un fastidio.
13 Gustave Flaubert, op. cit. (vedi nota 11), p. 291.
14 Gustave Flaubert, op. cit. (vedi nota 11), p. 291.
15 Gustave Flaubert, op. cit. (vedi nota 11), p. 292.
16 Gustave Flaubert, op. cit. (vedi nota 11), p. 292.
17 Lev Tolstoj, Anna Karenina, trad. it. di Leone Ginzburg, Einaudi, Torino, 1945, p. 724.
18 Lev Tolstoj, op. cit. (vedi nota 17), pp. 724-725.
19 Lev Tolstoj, op. cit. (vedi nota 17), p. 808.
20 Lev Tolstoj, op. cit. (vedi nota 17), p. 808.
21 Lev Tolstoj, op. cit. (vedi nota 17), p. 808.
22 Lev Tolstoj, op. cit. (vedi nota 17), p. 827.
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Conversazioni e spunti
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Spettabile staff de «L(’)abile traccia»,
nel trasmettere il mio plauso per questa ottima iniziativa, desidero farvi pervenire mie brevi righe sull’articolo di Rossella Conti.
Trovo sia felicemente resa con l’espressione “plus belle/poubelle”, l’atavica posizione femminile en souffrance, aspirante-aspirata dal dio ricostruito in Terra su basi illusorie e, dunque, già in partenza in rovina.
Comment s’en passer d’un homme, s’en servir?
Dal dio salvifico dell’Uno, ad un uomo sufficientemente presente!?
Alle “postere” l’ardua sentenza...
Cordialmente,
Amanda Dal Prà
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Sono lieta di aprire il dialogo con navigatrici e navigatori attraverso l’incisivo commento di Amanda.
Dunque: donne e passione dell’Uno, tendenza alla totalizzazione delle questioni; vedi anche (anticipo) l’articolazione della posizione madre/donna, da cui discende — inevitabilmente — il problema della collocazione delle donne nel sociale: è qui che Didone si disinteressa, abbandona la sua funzione di regina, manda in rovina, con sé, anche il proprio popolo, in una dedizione incondizionata, e neppure richiesta, al dio.
Quale può essere la via d’uscita?
Chiunque si riconosca, può dare testimonianza (sempre all’indirizzo staff@labileabile-traccia.com).
Rossella Conti
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Spettabile staff de «L(’)abile traccia»,
ho apprezzato il contributo di Rossella Conti L’ombra del rifiuto; donne e follia rivisitato attraverso alcune protagoniste del patrimonio letterario o mitologico (quanto l’uno divenga l’altro, in termini di discendenza culturale, è questione in contenzioso). Nello sviluppo del saggio, la matrice psicoanalitica è determinante nell’esplicitazione della relazione interna tra soggetti, agiti e agenti, non sempre coincidenti. Il punto di vista espresso da Rossella non fa che ampliare le nostre sempre — e benauguratamente — limitate possibilità di lettura del dinamismo testuale anche con argomentazioni extratesto. Manca, forse, la valutazione del carico psichico, morale, soggettivo degli autori citati, che attribuiscono alle loro figure femminili personali ottemperanze etiche. Purtroppo siamo fatti del nostro culturale e spesso non ce ne rendiamo conto quando scriviamo. Il rifiuto che Anna Karenina sente su di sé non è forse la proiezione di una disistima del suo creatore? Sicuramente nella scrittura delle donne — specie contemporanee — i medesimi atti suicidi hanno ben altro portato e mi permetto di rimandare, per amore di dialogo, ad un mio scritto sull’argomento (Un io crudele e molteplice. Individualità e soggetto in Jeanette Winterson, Ingeborg Bachmann e Agota Kristof, «Poliscritture. Rivista di ricerca e cultura critica», n. 0, 2005).
Un grazie a Rossella Conti per la condivisione di quello che appare evidente risultanza di anni di studio e serio lavoro.
Mariella De Santis
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Gentile Mariella De Santis,
ricevo e volentieri rispondo.
Si tratta di sottolineare, da parte mia, che l’intenzione è considerare i personaggi femminili delle opere letterarie, e non solo, in quanto casi clinici, mostrando la struttura. Non li considero sotto il profilo di “proiezioni dell’autore”, questione che potrebbe essere interessante, ma che non intendo mettere a tema.
La mia pratica clinica con le donne mi conferma, ahimè, che i poeti e gli artisti hanno ben individuato il tratto di struttura che caratterizza i personaggi delle loro opere. Non per nulla traggono spunto dai fatti di cronaca, non è che inventino; vedi Dacia Maraini in Cercando Emma1, dove
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O, se preferiamo, La canzone di Marinella di De André, per tornare all’attuale, è la trasfigurazione letteraria di un fatto di cronaca riguardante una giovane suicidatasi nel Tanaro, nei pressi di Asti, dove Fabrizio soggiornava d’estate dai nonni; è lui stesso a scriverlo: “Questa di Marinella è la storia vera”.
Il suicidio per Didone e le altre non consisterebbe tanto nel sentirsi in posizione di scarto, rifiuto, dell’altro, ma nel “fissarsi” in tale posizione, pietrificandola, appunto, in una lapide a memoria del loro cupio dissolvi.
In altri termini: è inevitabile per le donne, una per una, passare dalla posizione di poubelle (vedi anche Sulla più comune degradazione della vita amorosa2 di Freud). L’importante è non sostare lì, trovare un’altra strada, una via d’uscita, una “Seconda Volta”, poi una terza, una quarta… un significante nuovo.
Rossella Conti
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1 Dacia Maraini, Cercando Emma. Gustave Flaubert e la signora Bovary: indagini attorno a un romanzo, Rizzoli, Milano, 1996.
2 Sigmund Freud, Sulla più comune degradazione della vita amorosa, in Opere, volume VI, Editore Boringhieri, Torino, 1974.
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Cari navigatori de «L(’)abile traccia»,
nel considerare la testimonianza offertaci dalla lettera firmata che proponiamo qui di seguito alla vostra attenzione, occorre forse spingersi oltre le colonne d’Ercole di ciò che fa sintomo: l’astinenza, quale momento di elaborazione del déjà vu, può costituire luogo di un buon osservatorio e punto di elaborazione del lutto di modalità di godimento e di legame precedenti.
Rossella Conti
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Gentile dottoressa,
le confesso che cimentarmi a ragionare sull’amore e sulla dipendenza non mi appassiona nel presente, nello scampato pericolo di “suicidio” amoroso, per quanto non so più se immaginato... la depressione derivante dal rifiuto mi ha però segnata pesantemente, al punto che quello che lei descrive come la ricerca di un “significante nuovo” dopo aver tentato un’altra strada e via di uscita, mi vede solo alla presa di distanza e allo sfuggire gli uomini come la peste!!
Non ho praticato quindi una strada diversa dalla dipendenza amorosa, semplicemente ho smesso di cercare, di trovare e insomma di amare.
Non mi sono pertanto messa alla prova con una diversa modalità di amare.
Con questo non affermo di essere felice, ma l’assenza di quel tipo di dolore, del precipitare dal cono di luce dell’amore maschile alla disperazione del rifiuto... ancora mi sembra uno stato di convalescenza.
Sono convinta che, per come sono strutturata, rifarei gli stessi errori.
Non credo che per gli uomini l’amore debba essere considerato “non totalizzante” solo perché sanno darsi, individualmente e collettivamente, più valore di quanto sanno fare le donne; trovo nel poco valore appunto che le donne si danno il seme di quel darsi in modo illusorio, presupposto del passare ad essere spazzatura che è la conseguenza estrema dell’amore malato.
Io però non penso di essere tanto sana: tendo ad amare in quel modo un po’ illusorio e quindi, per evitare di ritrovarmi periodicamente ed a ciclo... immondizia, mi astengo.
Concludo con una battuta cinica ma anche spiritosa. In Campania il problema dei rifiuti è diventato emergenziale; per fortuna quello delle donne che si sentono trasformate in spazzatura da buttare non ha di questi esiti (o almeno, oggi, sembrerebbe anacronistico... ). Ma l’averci pensato, a gettarsi sotto un treno, beh, quello mi pare purtroppo che si potrebbe dare ancora come attuale.
Un caro saluto.
Lettera firmata
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Cari navigatrici e navigatori,
mi giungono insieme questi due testi, che inserisco subito nel dibattito. Nel primo caso si tratta di una nuova lettera firmata, che va ad arricchire significativamente il dibattito sulla questione femminile sul versante del “cattivo infinito”, altro nome della “totalità”.
Nel secondo caso, si tratta di un racconto — suddiviso in due parti — che Stefano Cozzaglio ha ritenuto di proporre, dopo aver letto la mia rubrica, e nel quale una donna si trova nella condizione estrema di essere oggetto delle cure mediche, non senza qualche sfumatura di ambiguità nella relazione tra curata e curante. L’autore sembra chiedersi se la condizione estrema di oggetto non possa costituire condizione paradossale di felicità, in particolare per questa donna.
Mi permetto di richiamare ciò che Freud ha appellato il principio del Nirvana 1, alludendo alla continua lotta del soggetto per non regredire all’inerzia dello stato di quiete (vedi anche i cosiddetti stati depressivi, così attuali nel villaggio globale). Tentazione forse più forte per le donne, si badi bene, non per le madri, più inclini le prime per struttura a ricoprire la posizione di oggetto2?
Rossella Conti
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Gentile dottoressa Conti,
essere certe di aver conosciuto il dolore e non sapere, ancora, se si sia incontrato l’Amore mi sembra un pensiero pertinente al tema di cui si sta trattando. Avere la percezione di ciò che si è dato (e si è disposti a dare), ma non riuscire a cogliere l’essenza di tale “apertura” nell’altro, credo sia il nodo da dipanare, almeno nelle mie esperienze. Correre sul filo di questo dubbio e risolverlo — quasi tentando di trovare una compensazione — con una tendenza totalizzante alla devozione, è stato per me una sorta di escamotage per evitare il rifiuto, di fatto solo rimandato.
Se sono stata sempre rifiutata? No. Ho sperimentato anche forme attive... Ma quando ciò è avvenuto, il copione, per lo più, ha riflesso una stessa dinamica: corteggiatissima — regina — compagna — amante — ripudiata (De la plus belle à la poubelle) e però, alla fine, puntualmente ri-cercata con pentimento (troppo tardi, quindi senza successo).
Un caro saluto.
Lettera firmata
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22/07/2008
Il nome Shilly era comparso sui giornali nel resoconto di un tentativo di suicidio di una giovane donna altoborghese annoiata e devastata dalla solitudine.
Capii di non essere morta solo molto tempo dopo, quando ricominciai ad avere cognizione del mondo esterno.
Ad essere distinte in modo chiaro furono prima le sensazioni olfattive: i disinfettanti, i medicinali, i saponi; ma anche l’odore delle persone: Ajna, Mario e pochi altri senza importanza che ora confondo.
Mi sembrava di essere diventata un cane pastore scozzese dal lungo muso, con il naso spinto in avanti, avanguardia della mia conquista del mondo.
Mondo in crescita, in movimento oltre me, senza di me.
No, mi ricredo... qualcosa, forse qualcuno ero: corpo morbido, rilassato nei suoi muscoli addormentati, presenza nella penombra della stanza.
La vita è come una fiamma, non riesce ad essere apprezzata da vicino, deve essere desiderata, immaginata quando è lontana o esplorata quando è flebile, prossima allo spegnimento.
Mario in realtà non l’ho mai guardato, ma lo sentivo negli odori, nell’aria smossa, nella pressione professionale delle dita quando mi puliva.
Povero, solo Mario nella camera rigata dall’ombra delle tapparelle a lavare il mio corpo di donna inerte, silente.
Cominciò a parlare al mio respiro, a notare il colore della mia pelle, la foggia dei miei capelli. Per lui ero la materializzazione della donna-sogno, troppo bella, colta, ricca da viva; ora centro di cure e di attenzioni, interlocutrice muta della sua necessità di parlare e quindi di essere.
Le sue normalità, ritagli di vita assorbiti nell’arco di giornate dal corso abitudinario, mi venivano riportate nella penombra della camera e qui si rianimavano come pesci liberati in una polla d’acqua limpida.
Forse per questa sua fragilità gli era stata affiancata Ajna, giovane donna, profuga dei Paesi dell’Est, sola e selvaggia. Il suo odore era caratteristico e sapeva di selvatico; una volta, mentre era chinata, un ricciolo di capelli neri le si sciolse e mi sfiorò la pelle: ebbi un brivido di emozione.
Lei aveva conosciuto le carezze degli uomini, ma ora, lupo alieno nella città, necessitava di linguaggi e codici di comportamento adeguati per non rischiare di morire di solitudine.
Ero il suo manuale di emulazione, l’amica da copiare nei vestiti, negli interessi, nell’immagine.
Avevo due tatuaggi: uno sotto l’ombelico, l’altro in fondo alla schiena e la sentivo carezzarmeli, quasi per conoscerli. Era lei che apriva le finestre per cambiare l’aria e portava fiori freschi per ingentilire la “tecnicità” della stanza.
Avevamo anche un piccolo segreto: uscito Mario, estraeva da una minuscola tasca del camice un campione di profumo che mi voleva far provare. Erano campioni omaggio di poco valore e scelti spesso con gusto selvaggio, ma la sua volontà di coinvolgermi nella sua vita mi emozionava.
Imprevedibili personaggi spinti in un’ansa di acqua morta dalla corrente della vita, galleggiavano insieme legati da effimeri equilibri.
Perché dovevo io, blasfemo tentativo di interrompermi la vita, rovinare tutto?
Avevo paura del futuro, di perder quel poco di affetto, quelle coccole mentali che mi venivano offerte; cos’ero io, dunque?
Ero un piccolo Oggetto Felice e questo mi bastava.
28/07/2008
Sergio Braschi, medico.
Giovane, ma sciupato, magro e lievemente curvo.
Un’esistenza grigia e monotona, una vita arida che gli permise di concentrare intuizioni e caparbietà su di un unico punto: me.
Non volevo svegliarmi, la mia mente era libera dalle cure di un corpo vegetale, statua vivente che altri accudivano.
Le pratiche mediche, anche quelle invasive, che lo tenevano vivo, ormai non riuscivano più a procurarmi dolore; questo era diventato il segno della devozione che mi veniva tributata e che io dovevo recepire come riconoscimento di stato: fatemi vivere e io penserò anche per voi. Sarò la vostra mente.
Ne ho sentito la presenza ostile subito, ancora nel sonno: lui non vibrava con noi.
Ape Regina tenuta in vita dal desiderio e dall’emulazione di chi si poteva nutrire delle mie apparenze, ora trovavo un pensiero refrattario, di sfida.
Ah, come non l’avevo capito immediatamente? Eppure me lo aveva anche detto che avrebbe voluto riportarmi indietro, al di qua della Porta.
Dentro di me ridevo perché ritenevo che non avesse i mezzi per attuare i suoi disegni: io sola potevo variare questo mio stato e non avevo alcuno stimolo a farlo.
Qui avevo l’amore che nessuno mi aveva corrisposto prima ed era troppo pericoloso perderne i vantaggi per cercare altrove qualcosa di meglio.
Provò a scuotere la mia sessualità facendo scorrere lo sguardo carico sulle nudità del mio corpo, indifeso nella sua marmorea immobilità.
Ma già troppe volte, durante i loro servizi, sia Mario che Ajna mi avevano involontariamente fatta fremere di vergogna o di desiderio per non avermi dato modo di elaborare dei meccanismi di autodifesa.
Non l’avrei mai amato e questo rendeva inefficaci le sue armi.
Fu qui che mi parlò, da solo a sola. Sapeva che sentivo e capivo, non era come Mario che sognava ad alta voce. Mi avrebbe tolto dal mio stato di larva, mi avrebbe riassorbito nella vita anche contro la mia volontà.
Lo pensavo pazzo, ma non potevo immaginare il terribile prezzo di questa operazione.
È passato molto tempo e ora mi vesto da sola. Indosso le mutandine, allaccio il reggiseno ed infilo le calze stendendole delicatamente con le dita. Ogni volta che ripeto questi gesti, segno della mia rinnovata volontà di autonomia, lo penso e non lo trovo.
Sergio Braschi si è perso nella mediocrità della vita: sapendo che non avrei mai potuto amarlo, aveva però capito che avrei potuto odiarlo.
Avrebbe assorbito, da solo, tutto il desiderio di vendetta che il mondo mi suscitava.
Non l’amore, ma l’odio sconvolge maggiormente i nostri sensi e lui lo sapeva.
Ho riaperto gli occhi per alzarmi, per fermarlo, per riottenere le cure e l’affetto che aveva ordinato di togliermi.
Ora sì, gridavo per il dolore e per la rabbia, con l’inferno che riprendeva a soffocarmi la mente, con la luce che gli occhi ricominciavano a percepire.
Ma dove era il mio nemico? Svanito e con esso anche il mio desiderio di nulla, ma la Porta per il ritorno si era ormai riaperta.
Volevo alzarmi, mangiare e fare la pipì da sola.
Ingannata, gridavo e piangevo di gioia, ma la sua personalità si era già reimmersa nella banalità del quotidiano ed io non ne distinguevo più le fattezze.
Le nuvole rotolavano nel cielo del tardo pomeriggio ed io mi sentivo ancora, dopo un tempo infinito, viva.
Stefano Cozzaglio
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1 Sigmund Freud, Il problema economico del masochismo, in Opere, volume X, Bollati Boringhieri editore, Torino, 2000, p. 5 e ss.
2 Sull’articolazione della posizione madre/donna, vedi Colette Soler, Quel che Lacan diceva delle donne. Studio di psicoanalisi (libro di prossima recensione su questo sito), trad. it. di Graziano Senzolo, FrancoAngeli Edizioni, Milano, 2005.
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