Una recensione
a cura di Leandro Piantini
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“Quanto male si era fatto progettando il bene”: queste semplici parole riassumono il senso del nuovo romanzo di Cristina Comencini, L’illusione del bene, pubblicato da Feltrinelli. Un ex comunista italiano si domanda perché non si parla mai della tragedia del comunismo e va alla ricerca della sorte subita da una donna russa perseguitata e finita in manicomio. Un romanzo che in Italia si aspettava da anni. Si aspettava che qualcuno finalmente cominciasse a parlare del comunismo, della sua fine e delle conseguenze che ha avuto; e si domandasse perché la sinistra italiana non ha difeso i dissidenti dell’Urss e degli altri Paesi dell’Est, e perché il crollo del comunismo da noi è stato accolto in modo così tiepido, imbarazzato (si è cercato di glissare, di parlarne il meno possibile).
La Comencini ha scritto un romanzo appassionato, con una trama movimentata ed avvincente, che ci porta dall’Italia a Budapest e infine nella Repubblica ex sovietica del Kazakistan. Mario, un cinquantenne che lavora alla Rai, personaggio inquieto e ansioso, che è stato lasciato dalla moglie Patrizia da cui ha avuto un figlio — e lei ne aveva avuti altri due da un precedente matrimonio — ha un chiodo fisso. Non accetta che il “sogno” della palingenesi totale, incarnato dal comunismo, sia scomparso senza lasciare traccia nell’animo dei militanti che hanno creduto nella rivoluzione. Non gli va giù, lo fa arrabbiare che si dica, con un refrain che tutti abbiamo sentito, che “l’idea era giusta, è stata male applicata”. No, troppo facile. Con quella esperienza storica, con quella fede, con quella militanza che per tanti anni ha coinvolto milioni di persone che volevano cambiare il mondo, bisognerà pure fare i conti e farli sul serio.
“È un mondo interiore che crolla con il Muro. Il male, il bene, la sensazione nostra di essere i migliori, l’idea che esistesse un progetto futuro, un’organizzazione sociale che avrebbe permesso a milioni di persone di essere uguali, di accedere alla cultura, al benessere, di non sentirsi mai più esclusi! È un sistema mentale che va in frantumi… ” (p. 25).
Mario ritrova nel disincanto di suo figlio Roberto l’eco di questa delusione epocale: “Avevo seminato in lui le mie stesse idee, e ora gli dicevo che niente era vero, che nulla si sarebbe realizzato in quel modo, che non ne valeva la pena. Mai come in quel momento toccavo concretamente il dolore della perdita del sogno” (p. 89).
Il romanzo della Comencini non persegue una tesi ideologica; è un vero romanzo perché l’inquietudine e i rovelli del protagonista si saldano con il racconto di una vicenda drammatica che riguarda una donna di cui si è innamorato. Mario ha conosciuto Sonja, una giovane russa emigrata in Italia con la nonna, che ha avuto una relazione con un italiano da cui è nata una bambina. Sonja e Mario si piacciono, ma la storia d’amore si blocca. L’uomo ha scoperto che nella vita di Sonja c’è un segreto doloroso: sua madre è rimasta in Russia, è malata, è stata in manicomio, forse è morta. L’interesse di Mario per la sorte di chi fu perseguitato dai regimi dell’Est si concentra tutto nel bisogno irresistibile di sapere che fine ha fatto Irina (la madre di Sonja), che cosa le è successo, se è davvero morta o se vive ancora, e se è possibile ritrovarla.
Così inizia un viaggio che Mario compie, insieme al figlio Roberto, sulle sue tracce, prima a Budapest e poi nell’immenso e lontano Kazakistan dove Irina alla fine era stata deportata, vittima di un regime poliziesco che negli anni Ottanta benché agli sgoccioli opprimeva ancora. Mario si mette in contatto con un’organizzazione che custodisce i documenti dei dissidenti, i Samizdat, e può leggere una drammatica lettera in cui Irina raccontava la sua odissea di oppositrice del regime, incarcerata e internata in un ospedale psichiatrico. Anche Irina aveva fatto parte di quella “catena umana di mani e persone senza volto che copiavano di notte, in stanze buie, maleodoranti, nel silenzio pieno di respiri di bambini, vecchi, ubriachi, spie… per fare arrivare a me quella sua lettera preziosa” (p. 135).
Il protagonista del romanzo è un uomo insicuro, nevrotico; di lui la moglie dice: “«Mario, tu non puoi sopportare la felicità. Ti pare sempre di averla tolta a qualcuno»”.
Ma quel viaggio in compagnia del figlio, la volontà di sapere cosa è accaduto alla madre della donna che ama e la pena infinita che quella vita spezzata gli suscita, sono per lui un potente alimento a ritrovare se stesso, a riconciliarsi con le persone a cui vuole bene, e anche a intravedere un futuro di speranza collettiva in cui si possa ancora credere nonostante le delusioni patite. “Ci sembra, abbandonando il sogno, di tradire la nostra umanità. Ma è proprio il contrario. Le prossime generazioni, se non saranno annientate un’altra volta dall’odio di chi si sente migliore, potranno esistere nel loro tempo, darsi da fare, trovare soluzioni, elaborare teorie in libertà. I miei occhi ancora non riescono a vedere queste novità. La mia mente, come quella di Irina, è stata preparata per non capire. Ma so, come lei, che esiste già chi le pensa” (p. 217).
Leandro Piantini
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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