Una recensione
a cura di Anna Antolisei
|
Arriva dall’Inghilterra, importato dall’editore Meridiano zero, E morì a occhi aperti, il noir che apre la serie di Derek Raymond detta “The Factory”, e che ha per protagonista il “Sergente”, un investigatore destinato a restare senza nome, quasi a sottolineare l’irrilevanza di un’identità specifica laddove tutto è sfumato — distinguibili solo gli elementi essenziali — nella Londra altrettanto scolorita e desolata di una sacca urbana che non raccoglie di certo il fior fiore della società britannica.
È l’habitat che predilige Raymond, scrittore dalla realissima vita “maledetta” morto nel 1994 a conclusione di un’esistenza senza regole, sempre condotta sul filo del rasoio. Poco da stupirsi, quindi, se traspare nel libro l’ovvietà tutta angloamericana, almeno in partenza, che ama il giallo — o il thriller oppure il noir — ambientato nel desolante squallore; il gomitolo della vicenda si dipana infatti in un decadimento paesaggistico e umano, che più da manuale di così non potrebbe essere.
Il “Sergente” di Raymond è un poliziotto puro, tenace e privo di ambizioni carrieristiche: opera infatti — e ci si trova benone — nell’A 14, la sezione “Delitti irrisolti” dove finiscono i casi che più lasciano indifferente la stampa e la pubblica opinione per quanto anonime sono le vittime e scontati i rei (in genere piccole e violente canaglie stanziali che sbarcano il lunario con lo spaccio di droga e lo sfruttamento della prostituzione).
La scontatezza del contesto, però, non tragga in inganno il lettore: il “Sergente”, infatti, si trova davanti ad una storia ben più intricata di quanto si possa prevedere, e la vivrà con partecipazione totale. Verrà a capo del mistero proprio immedesimandosi a tal punto con la vittima da condividerne abitudini e sentimenti, vicende ed emozioni. E questo processo d’identificazione verrà soprattutto indotto dal diario, registrato su cassette, che Charles Staniland — l’ucciso in modo feroce, a pugni, calci e crudeli sprangate — lascerà dietro di sé, a testimonianza di quanto il suo passato sia saturo di rimorsi e di rimpianti, il presente (mozzato dalla morte) sia carico di passioni sconsiderate e invincibili. I più cocenti rimpianti sono la moglie e la figlia perdute per la sua inconcludenza; le più sofferte e devianti passioni l’alcol, assieme alla bella e perfida Barbara.
E pesa anche, nella misera quotidianità di Staniland, il rifiuto della sua stessa provenienza: una piccola borghesia gretta e interessata che l’autore incarna, nuovamente secondo uno stereotipo eccessivo, nei sordidi, indifferenti perbenisti che sono il fratello e la cognata della vittima. Pesa ancora su di lui Eric, il figlio drogato dell’ex moglie che, irriconoscente, succhia denaro alla sua incapacità (illusoria panacea per i troppi sensi di colpa) di negare alcunché. Lo deprime il suo ultimo, svogliato lavoro in un’agenzia di noleggio d’auto, l’abbandono dello stesso ed il successivo, costante scivolare di bar in bar, di bicchiere in bicchiere al seguito dell’ambigua amante dalle frequentazioni ben radicate nella delinquenza di branco, il cui arrogante capetto non perde occasione per mortificare l’impotente acquiescenza di Charles.
C’è, insomma, tanto nella vita quanto nella morte di Staniland, una sorta di rassegnazione che il “Sergente” non riesce proprio a digerire. Il suo accanimento nell’identificarsi con quell’uomo sorprendentemente colto, dalla personalità autodistruttiva, lo guiderà alla scoperta dell’assassino (o degli assassini?) e a scovare il movente dell’omicidio, ma anche la risposta che, al problematico investigatore, sta forse più a cuore e cioè la ragione, vera e determinante, dell’inerte passività con cui Charles va incontro alla sua drammatica fine.
Sulla trama e sulla conclusione del racconto è bene non rivelare altro: bisogna però sottolineare la caratteristica più positiva di Derek Raymond, un autore non professionista e un talento naturale, al cui stile (che è un piccolo prodigio di scioltezza e di armonia) l’esperta traduzione di Filippo Patarino rende merito. Mai enfatica o ridondante, mai troppo misera o volutamente minimalista, la scrittura scorre nelle pagine del romanzo in un equilibrio di rara gradevolezza, rafforzata dalla profondità dell’indagine psicologica che l’autore compie attorno ai suoi protagonisti ed alle loro problematiche esistenziali e d’ambiente. È, quello di Raymond, un approccio alla narrazione di tipo senza dubbio intimista, dove l’autore sembra riversare in ciascuno dei personaggi qualche brandello di sé, delle sue angosce e delle sue speranze, consce (a dispetto di tutto) del potere distruttivo del male e della forza redentrice del bene. In sostanza, Niccolò Ammaniti dice il giusto quando, nella prefazione, afferma che “Raymond ama i morti e odia i vivi e questo ne fa uno scrittore unico, che prescinde il genere e le mode”.
Buona cosa, dunque, che Meridiano zero abbia offerto agli estimatori italiani del mystery un insolito scorcio in più sulla letteratura britannica dei contemporanei; e proprio nel genere in cui vanta una tradizione prestigiosa e oramai secolare.
Anna Antolisei
|
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
È vietato l’uso commerciale e la rimozione delle informazioni di Copyright
![]() |