Una recensione
a cura di Marisa Napoli
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Come, grazie alla tecnica con cui si confezionano le collane, detta “a nucleo perso”, “le pietre scorrono liberamente lungo il filo” e innescano una relazione continua con chi la collana la indossa, così le poesie di Giusi Busceti si snodano danzanti, susseguendosi una a una e agganciando l’attenzione del lettore, che viene trasportato in un mondo “altro”, capace di farci conoscere con più consapevolezza quello che attualmente ci circonda, o per analogia o per contrasto.
La situazione attuale dell’“emergenza-spazzatura”, per esempio, evocata da espressioni forti e enigmatiche — come “sotterranee vie di plastica/ risucchiano reali carovane dai molti passi/ nel mattino, rifiuti/ del cielo fatto polvere” (p. 12) — quasi permea Allarme rosso di un tono profetico, che preannuncia la “fine per il primo mondo” (p. 12). Ma un barlume di speranza vediamo “nei piccoli forzieri di luce” sepolti in noi, speranza proiettata verso gli uomini del futuro: “amiamo vederli, giovani, mentre corrono, oltrepassano i bidoni d’immondizia, sono la voce del parco” (p. 13).
Il linguaggio è enigmatico, come conviene a una pizia, ellittico, misterioso, ambivalente. Talvolta, ti imbatti in versi identici, come se, così dice la Busceti, “versi/ da un libro all’altro [migrassero], danzanti” (p. 13).
È vero, si avverte questa danza musicale.
In Busceti si procede per enumerazioni (A vela, p. 15), elidendo il predicato e affidando ai nomi la sostanza delle cose. Si crede, pare, nella parola e nella scrittura (non a caso costantemente presenti) e c’è un metalinguistico tendere a esse: “ne riparlano le pietre” (p. 12); “[...] il foglio di luce/ che riposa in noi [...]” (p. 14); “parole amate e nascoste nella mano” (p. 15); “la terra che non scrisse” (p. 15); “scrivere questo amore finalmente” (p. 16); “[...] come solamente/ non scriverne il segreto per tenersi” (p. 17).
E addirittura, non più nomi ma pro-nomi: la circonlocuzione per definire i bambini nel parco, sa di analisi morfologica: “Hanno ancora sette anni i pronomi plurali:/ gettano me lontano e resta il mondo” (p. 13).
È come se in Busceti il potere della parola e della scrittura rivelasse tutta la sua forza demiurgica di plasmare il mondo, di far prendere coscienza dei sentimenti, di far avere più consapevolezza della realtà.
E, poi, riconosco nei versi (perché è anche mio) quello che Busceti chiama “il ruvido Aspromonte delle mie radici”: ed è consolante sapere che nuove voci di poesia come questa hanno a che fare con la Calabria, che potrebbe assomigliare a quella “[...] terra/ lussureggiante di copiosa fame, di/ ragioni per ridere svegliarsi” (p. 18).
E il movimento inizia in un verso e l’enjambement lo trasmette senza soluzione di continuità al seguente, in una sorta di turbinio, che riscontro — a pagina 21 — “nel ciclone di Giove” dell’estate milanese al parco “Trotter”.
Interessante Nona fase di contemplazione: uno stacco, immersione in una vasca da bagno, e sebbene si percepiscano le voci del mondo nell’etere e “d’improvviso un battito qualcosa/ si [avverta interferisca] si [rifranga] [...]”, il mondo (momentaneamente) resta fuori.
E mano a mano che avanziamo, veniamo trascinati nel minimalismo di situazioni quotidiane e aumenta il pastiche linguistico. In Pesce d’aprile si riscontrano parole doppie composte assemblate (“riflesso lucelampo”), la sintassi è sconquassata da anastrofi e iperbati (“così cosà ora essere bisogna,/ fare sia chiaro e l’accento sull’ora,/ te lo continuo con ogni mia ripetere/ papilla che ti cerca di parole”). Ma serpeggia l’incomunicabilità tanto che “le parole annego in acqua algida/ con tazze sporche e piatti scuoto sciacquo/ e risciacquo l’intirizzito bene che ti/ sbatto, strizzo e riscuoto, che d’esistere/ desista, grido io carta muta”. Sembra che la posizione iniziale sia ribaltata, la fiducia nella parola allentata, si avvicina al silenzio.
E riconosco anche il mare nostrum, e ritorna la fiducia nella parola e nell’amore: “Mediterraneo soffia sospingendomi/ parole a vita [...]” (p. 31).
E ritrovo i profumi del Sud: “la menta fragrante” (p. 32); e ancora: “Sono odori/ tuppè, fumi, trecce, piselli da sbucciare/ a primavera e fuochi alla montagna verso/ sera di fronte” (p. 36); oppure le voci cantilenanti delle donne di Bagnara (Reggio Calabria), “equilibriste” con le enormi ceste in testa; e ancora voci d’infanzia (“ninna, nonna”, p. 32); e inoltre il sapore delle lenticchie: “carotine e lenti alate” (p. 50).
E, soprattutto, si avverte la consapevolezza che “non c’è scampo/ quando la parola va perduta”, la parola che riporta alle radici, e che solo gli affetti profondi risolvono i deragliamenti esistenziali e la perdita di comunicazione e di senso.
E il movimento-viaggio — da un posto all’altro: Milano, Arles, Pesaro (Ubi fluxus, p. 34), Fanano, in provincia di Modena (piazza Corsini, p. 43) e poi marine mediterranee e ancora Milano — può continuare all’infinito, intraprendendo nei versi nuovi percorsi, assecondando nuovi giri: a nucleo perso, appunto.
Marisa Napoli
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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