Paolo Ottaviani 
-Nota metrica-
Intendo per “treccia” un componimento poetico di sei strofe: quattro di versi alessandrini (o doppi settenari che, nella mia libera accezione, possono essere piani, tronchi o sdruccioli) e due di versi senari. In sequenza si dispongono, ripetendo lo schema, due quartine di alessandrini e una di senari. I versi vengono ordinati e scalati in modo perfettamente bipartito da una immaginaria linea ortogonale che solca dall’alto in basso il centro della pagina. Viene così a formarsi una sorta di disegno in forma di treccia. Le quartine di senari, disposte a rima alternata secondo lo schema “ABAB”, fungono da nodi: qui i versi si chiudono o si raccolgono per poi riaprirsi nelle ampie quartine dei doppi settenari. Queste a loro volta presentano, secondo un disegno costante, rime esterne, rime interne e “rime al mezzo”: i primi due versi infatti costituiscono un distico a rima baciata; il primo emistichio del verso 1 rima poi con il primo emistichio del verso 3; il primo emistichio del verso 2 rima con il secondo emistichio del verso 3; il verso 4 presenta infine la “rimalmezzo”. “[...] Le joug de la rime [...]”1, la tirannia delle rime tende così a generare e poi a far fluire, dentro lo scheletro della forma chiusa, la vitalità musicale e semantica del mio universo poetico. 
 
 
 
 
 
1 François-Marie Arouet (detto Voltaire), Discours sur la tragédie à Mylord Bolingbroke.
 
Paolo Ottaviani 
-Dalla raccolta inedita Giogo di treccia-
 
TRECCE SABINE
 
 
 
 
 
 
Treccia degli specchi nei fiumi e nei cieli 
 
 
Seduto sulla riva, nel silenzio dell’acqua 
che scorre vana e scorre, come assorto nell’acqua 
l’uomoperla lambiva diroccata una torre 
luminosa di nuvole nel fluir delle nuvole, 
 
tra onde e gorghi rincorre lo sciamare verdastro 
del cielo, i pescatori curvi intenti a quel nastro 
d’acqua e nembi, rincorre la fuga dei castori 
che salpano sui rami, sui fluviatili rami… 
 
Ma in quale riflesso 
d’acqua, in quale cielo? 
Quale chiaro amplesso 
oltre specchio e velo? 
 
Da quale incrinatura soffia compatto il vuoto 
che tutti ci divide con affannato moto? 
Perché scema a orlatura la luce che recide 
l’oro e l’ombra del piano danzando insieme al grano? 
 
Dove si fende l’aria dentro il concorde azzurro 
per frantumare il mondo con un cenno o un sussurro? 
La forma statutaria del gran cogitabondo 
universo vivente va nel soffio del niente? 
 
S’inerpica vita 
tra specchi e riflessi 
buia s’infinita 
fulgendo in recessi. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Treccia dei suoni e dei colori 
 
 
Ho gli occhi dentro il sogno che mi trascina via 
oltre la quercia grande. Tra i raggi, la foschia 
e il bel rosso cotogno scintillano le ghiande, 
si azzurrano nei campi foglie cadenti e lampi. 
 
In lontananza fiamme lambiscono cavalli 
in lotta coi marosi riflessi da cristalli 
in variopinte gamme di madreperle e ipnosi, 
dentro la squilla chiusa di corno e cornamusa: 
 
sconosciuta croma 
della fantasia 
dentro quale aroma 
fugge l’armonia? 
 
Sento crescere il mare sotto un cadente cielo 
e dentro la spirale mugolìo del gelo. 
Fumi di zolfatare velano quel crinale… 
L’azzurro dei vapori!… La cenere dei fiori!… 
 
Cenere d’altre stelle, dentro quale altro tempo, 
in quali smarriti cloni l’eco di questo tempo 
che dall’ignoto svelle se stesso ad altri suoni, 
quali cetre e chitarre tra le inumate giarre? 
 
L’acre dell’ozono 
s’insidia in ogni spora. 
Ma in quale altro suono 
vita trascolora? 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Treccia del platano che guarda 
 
 
Se il platano che guarda la maestosa piana 
nell’ampia cerchia azzurra dei monti in filigrana 
negli occhi tuoi s’attarda, quando sera s’azzurra 
del viola più intenso (ma indolente se penso 
 
alle rondini, al volo che precipita e plana), 
dal suo bel simulacro la mente ora allontana 
e da un rorido suolo, da un più verde lavacro, 
altro platano appare che ti guarda e scompare. 
 
In fuga di luce 
da un buio ostinato 
si cela e riluce 
un canto neonato. 
 
Diverso sguardo sorge che non vedi e ti guarda 
su quel filo continuo come fiocco da carda 
e una musica porge dal ritmo discontinuo, 
ondeggiante dei rami, con preludi e richiami: 
 
è il platano del cuore che nella mente splende, 
tra i raggi si nasconde, poi in silenzio discende 
in un limbo incolore. Si dilegua. Sulle onde 
risale del ricordo, meraviglioso accordo. 
 
L’albero del suono 
tace. Poi riaffiora 
con dolce frastuono 
in luce d’aurora. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Treccia per la madre morta 
 
 
Che tu, madre, sia pura nel fuoco della morte! 
L’abete del giardino brucia le sue contorte 
pigne nella caldura secca e l’adamantino 
cielo vento infuocato rimena ora nel prato! 
 
Quando la terra, molle d’amore e di sudore, 
ubertosa s’apriva con il suo denso odore 
di calici e corolle, come l’acqua sorgiva 
frescura alla montagna, donava alla campagna 
 
aromi. Fu lieto 
di rondini, audace 
l’abete segreto, 
di stelle vorace 
 
mentre la guglia al vento nella notturna quiete 
colloquiava alla luna. Libero fu l’abete. 
Nell’arso testamento degli aghi, nella bruna 
corteccia che si scheggia, raccolto in sé riecheggia 
 
quell’antica sentenza che Lucrezio, con limpido 
verso — “[...] poenas in morte timendum [...]”1 — e con limpido 
ingegno all’evidenza trasse da oscura sorte: 
perenne attualità per ogni umanità 
 
che vive Natura 
senz’alba né morte, 
Madre eterna e pura 
quanto il fuoco forte! 
 
 
 
******************** 
1 Lucrezio, De rerum natura, libro I, v. 111.
 
Paolo Ottaviani 
-Dalla raccolta inedita Giogo di treccia-
 
TRECCE ETRUSCHE
 
 
 
 
 
 
Treccia della stella riflessa nella luce di Perugia 
 
 
Tu guardala dall’alto questa stella distesa 
sulle curve serene dei colli, già protesa 
al piano, contrassalto di pietre alle catene 
contorte degli ulivi, degli olmi ombrosi e schivi, 
 
seguila nelle rapide discese delle case 
che l’una l’altra tiene con rostri alle cimase, 
oltre la buia lapide, la luna che ora viene 
lucente si nasconde tra i comignoli e le onde 
 
brevi dei tetti, ecco: 
nel cielo si narra 
che strano stambecco 
qui fece gazzarra! 
 
Un etrusco, celeste sorriso tra le nuvole 
si nasconde nel gioco d’archi, bifore e nuvole, 
qual ventilata veste s’apre e s’irradia un poco: 
non sai se terra o cielo ti chiami oltre quel velo, 
 
se t’inabissi o sali, rondine sulla storia, 
se è pietra, ulivo o sogno che veglia la memoria 
diafana dei frontali dei templi emersi in sogno: 
armoniosa e infranta qui tutta l’Umbria canta! 
 
Sulla Trinità 
dorme una capretta: 
nell’ubiquità 
va e bruca l’erbetta. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Treccia per via del Paradiso 
 
Al demone etrusco presente in Walter Binni 
 
 
C’è a Perugia una via fatta solo di scale, 
(non delle più famose parlo anch’esse da scale 
ornate e d’allegria, dalle ebbrezze fumose, 
ciarliere di studenti pensierosi o ridenti 
 
nel saliscendi bello di lingue e di colori), 
che s’inerpica austera, lontana dai clamori 
estasiati del bello. Di barriera in barriera, 
per novantuno scale, come mossa da astrale 
 
potenza, trascina 
l’anima alla vetta. 
Vedo ogni mattina 
l’ombra mia soletta 
 
abbarbicarsi ai selci, farsi chiara e petrosa 
sotto il bell’arco a mandorla, poi scivolare acquosa, 
come le molli felci su un greto: una farandola 
di fanciulli e piccioni nelle belle stagioni 
 
rumoreggia nell’aria celeste del mattino. 
Sotto i blocchi di pietra poderosi mi ostino 
a godere dell’aria che schiaffeggia la pietra 
tollerante dell’arco: ma una linea varco 
 
di una sacra via 
e un antico incanto 
spezzo in allegria? 
E or di che m’incanto? 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Treccia per Corso Vannucci 
 
 
Com’è bello da vivo nascondersi in un grande 
cappotto e poi guardare la luna! Le ghirlande 
d’argento dell’ulivo danzano al biancheggiare 
sottile dei pensieri: furono desideri 
 
un tempo virginali, poi profumi e fogliame, 
nel cuore della terra fiammeggiante pietrame! 
Con occhi musicali riaccesi sulla terra 
al di là d’ogni tempo si sta dentro ogni tempo 
 
e cambia festosa 
ora in questo Corso 
ogni esile cosa: 
continuo ricorso 
 
di pietre ingentilite dal pennello dell’arte: 
già remote foreste fiorenti in ogni parte 
fummo poi intenerite da linfe e da tempeste 
e il vento sulle soglie turbinoso ora scioglie 
 
il cielo tra le pietre, Perugia! Qui t’aduni, 
qui alle stelle t’innalzi, nelle sere t’abbruni 
d’inverno, quando cetre di vento e sobbalzi 
d’incanti alla Fontana dalla fulgida tana 
 
del solingo ingegno, 
fraterno e sfuggente, 
l’Etrusco il suo segno 
lasciò sorridente. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Treccia per l’Amiata 
 
A Giovanna e Walter Cremonte 
 
 
Quando il tempo si sgrana leggero e tutt’intorno 
vibra l’aria più chiara, più tenera del giorno 
«un po’ di maggiorana» — chiedi — «insieme alla cara 
mentuccia, all’erba luisa»… Nella voce indecisa 
 
l’allegrezza s’incrina, dal cupo marroneto 
smotta per le viottole fino ai sassi del greto, 
lungo la serpentina s’invena nelle frottole, 
nel sangue dell’infanzia, la trasparente infanzia: 
 
nel bosco d’Amiata 
magma peperino, 
faggina argentata 
respiri in cammino: 
 
sono faggiprofeti con gli occhi incastonati 
dentro le roccefoglie di dirupi incavati, 
diroccati poeti dalle sillabe spoglie, 
coriandoli di sole tra fraterne parole. 
 
Qui alchimisti ed astronomi, minatori e mezzadri 
esplosero marroni nei focolari, ladri 
d’arnie e miele da autonomi decreti, da carboni 
mistici liberati, da utopia bruciati: 
 
respirano i sassi 
sangue di giustizia, 
acque, faggi e sassi 
sono già letizia.
 
Paolo Ottaviani 
-Dalla raccolta inedita Giogo di treccia-
 
TRECCE ESTONI
 
 
 
 
 
 
Treccia delle betulle in fiore 
 
 
Dormono calde nuvole nei boschi di betulle 
dove il cielo s’impiglia tra i pini e le fanciulle, 
liete come le nuvole, vanno nella fanghiglia: 
il sole silenzioso guarda calmo e festoso. 
 
Sembrano volar via su pattini d’argento 
leggere e variopinte bambine controvento: 
è l’acre profezia delle braci indistinte, 
accese nell’assenzio, poi spente nel silenzio. 
 
S’accorda alla terra 
come inquieto velo 
il cielo, poi sferra 
sulla terra il gelo. 
 
La foresta dispiega la potenza del verde, 
una luce s’incarna tra umidi rami, perde 
forza il vento. Si piega sulla rossiccia marna 
un giovane alberello. Vola raso un uccello… 
 
poi s’alza e sfiora il bianco delle betulle in fiore: 
è il cerchio che ripete la gioia del colore. 
Com’è ferita al fianco la grazia dell’abete! 
Un umile lacerto sanguina a cielo aperto. 
 
La linea bella 
del bosco e del mare 
con viva favella 
muove a poetare. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Treccia degli elfi nel fuoco dei camini 
 
 
S’incrociano più azzurre di cielo e di catrame 
le strade e gli alti pini. Profumi di legname. 
Qui mi lascio sedurre dal fuoco dei camini 
e dalle antiche favole degli elfi, gnomi e diavole. 
 
E l’anima si posa sul filo delle grate, 
sul fumo e sull’odore delle leggende alate, 
va e danza senza posa col vento e con le spore, 
si fa fiocchi d’argento perlati di sgomento 
 
e s’incurva e s’alza 
sul ribes, sul melo, 
lieve ad ogni balza 
per l’ansia del gelo 
 
che a settembre s’annuncia nelle vene bluastre 
della sera, nel crocchio delle pigne salmastre. 
Qui l’anima rinuncia, s’insinua nel nocchio 
di una gemma dormiente, di una sparsa semente: 
 
da un oscuro pertugio mira lo scintillio 
della volta cadente delle stelle, nel pio, 
misterioso rifugio di un’estasi incipiente, 
poi torna a volteggiare, persa nel focolare: 
 
rossa eternità 
di luci e di fumi, 
sta felicità 
tra spire e profumi. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Treccia dell’alba e delle torri 
 
 
Dal mare alla città l’alba e le torri guardano: 
gli occhi delle fioraie premurosi s’attardano 
ai bouquets di lillà. Sotto le colombaie 
si anima una strada lucente di rugiada. 
 
Rododendri impalpabili rincuorano i colori 
diafani dell’aurora. Smottano pescatori 
a piagge inaccessibili. Non v’è nido o dimora 
più ricolmo di vuoto dell’apparente moto 
 
dell’alba che plana 
dal mare alle torri 
nel bianco nirvana 
che in sogno precorri. 
 
E lieve in trasparenza la luce appena nata 
sommuove il sottobosco, penetra trasognata 
nella mite nescienza delle rose del chiosco, 
al ritmo infranto e vago di un uccello di lago, 
 
s’incurva sulle calde tegole rosse, segue 
nuvole di cicogne remiganti, prosegue 
lungo le dolci falde della memoria: Progne, 
madre infelice e rondine, nel volo della rondine 
 
che crolla e riparte 
fu pura e fu salva. 
La luce dell’arte 
ancora ci salva.
 
Paolo Ottaviani 
-Nota biografica-
Paolo Ottaviani è nato a Norcia (Perugia), nell’estrema parte nord-orientale dell’antica Sabina. Laureatosi in filosofia con una tesi su Giordano Bruno, ha successivamente pubblicato saggi sul naturalismo filosofico italiano. 
Ha fondato e diretto la rivista «Lettera dalla Biblioteca». Collabora a numerose riviste specializzate e multimediali con saggi, recensioni e articoli di interesse letterario. Attualmente dirige, in terra etrusca, la Biblioteca dell’Università per stranieri di Perugia. 
Con le Edizioni del Leone (che si trovano a Spinea in provincia di Venezia), ha pubblicato due volumi: la raccolta di liriche Funambolo (uscita nel 1992 con una prefazione di Maria Luisa Spaziani) e il poemetto bilingue Geminario, del 2007, vergato in un originale idioma neovolgare che, in movimento alternato con la lingua italiana odierna, riecheggia i volgari due-trecenteschi, comprese le arcaiche, suggestive sonorità di quei componimenti poetici che segnano il passaggio dalla metrica dei ritmi bassolatini alla metrica italiana accentuativa.
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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