Intendo per “treccia” un componimento poetico di sei strofe: quattro di versi alessandrini (o doppi settenari che, nella mia libera accezione, possono essere piani, tronchi o sdruccioli) e due di versi senari. In sequenza si dispongono, ripetendo lo schema, due quartine di alessandrini e una di senari. I versi vengono ordinati e scalati in modo perfettamente bipartito da una immaginaria linea ortogonale che solca dall’alto in basso il centro della pagina. Viene così a formarsi una sorta di disegno in forma di treccia. Le quartine di senari, disposte a rima alternata secondo lo schema “ABAB”, fungono da nodi: qui i versi si chiudono o si raccolgono per poi riaprirsi nelle ampie quartine dei doppi settenari. Queste a loro volta presentano, secondo un disegno costante, rime esterne, rime interne e “rime al mezzo”: i primi due versi infatti costituiscono un distico a rima baciata; il primo emistichio del verso 1 rima poi con il primo emistichio del verso 3; il primo emistichio del verso 2 rima con il secondo emistichio del verso 3; il verso 4 presenta infine la “rimalmezzo”. “[...] Le joug de la rime [...]”1, la tirannia delle rime tende così a generare e poi a far fluire, dentro lo scheletro della forma chiusa, la vitalità musicale e semantica del mio universo poetico.
1 François-Marie Arouet (detto Voltaire), Discours sur la tragédie à Mylord Bolingbroke.
|
Treccia degli specchi nei fiumi e nei cieli
Seduto sulla riva, nel silenzio dell’acqua
che scorre vana e scorre, come assorto nell’acqua
l’uomoperla lambiva diroccata una torre
luminosa di nuvole nel fluir delle nuvole,
tra onde e gorghi rincorre lo sciamare verdastro
del cielo, i pescatori curvi intenti a quel nastro
d’acqua e nembi, rincorre la fuga dei castori
che salpano sui rami, sui fluviatili rami…
Ma in quale riflesso
d’acqua, in quale cielo?
Quale chiaro amplesso
oltre specchio e velo?
Da quale incrinatura soffia compatto il vuoto
che tutti ci divide con affannato moto?
Perché scema a orlatura la luce che recide
l’oro e l’ombra del piano danzando insieme al grano?
Dove si fende l’aria dentro il concorde azzurro
per frantumare il mondo con un cenno o un sussurro?
La forma statutaria del gran cogitabondo
universo vivente va nel soffio del niente?
S’inerpica vita
tra specchi e riflessi
buia s’infinita
fulgendo in recessi.
Treccia dei suoni e dei colori
Ho gli occhi dentro il sogno che mi trascina via
oltre la quercia grande. Tra i raggi, la foschia
e il bel rosso cotogno scintillano le ghiande,
si azzurrano nei campi foglie cadenti e lampi.
In lontananza fiamme lambiscono cavalli
in lotta coi marosi riflessi da cristalli
in variopinte gamme di madreperle e ipnosi,
dentro la squilla chiusa di corno e cornamusa:
sconosciuta croma
della fantasia
dentro quale aroma
fugge l’armonia?
Sento crescere il mare sotto un cadente cielo
e dentro la spirale mugolìo del gelo.
Fumi di zolfatare velano quel crinale…
L’azzurro dei vapori!… La cenere dei fiori!…
Cenere d’altre stelle, dentro quale altro tempo,
in quali smarriti cloni l’eco di questo tempo
che dall’ignoto svelle se stesso ad altri suoni,
quali cetre e chitarre tra le inumate giarre?
L’acre dell’ozono
s’insidia in ogni spora.
Ma in quale altro suono
vita trascolora?
Treccia del platano che guarda
Se il platano che guarda la maestosa piana
nell’ampia cerchia azzurra dei monti in filigrana
negli occhi tuoi s’attarda, quando sera s’azzurra
del viola più intenso (ma indolente se penso
alle rondini, al volo che precipita e plana),
dal suo bel simulacro la mente ora allontana
e da un rorido suolo, da un più verde lavacro,
altro platano appare che ti guarda e scompare.
In fuga di luce
da un buio ostinato
si cela e riluce
un canto neonato.
Diverso sguardo sorge che non vedi e ti guarda
su quel filo continuo come fiocco da carda
e una musica porge dal ritmo discontinuo,
ondeggiante dei rami, con preludi e richiami:
è il platano del cuore che nella mente splende,
tra i raggi si nasconde, poi in silenzio discende
in un limbo incolore. Si dilegua. Sulle onde
risale del ricordo, meraviglioso accordo.
L’albero del suono
tace. Poi riaffiora
con dolce frastuono
in luce d’aurora.
Treccia per la madre morta
Che tu, madre, sia pura nel fuoco della morte!
L’abete del giardino brucia le sue contorte
pigne nella caldura secca e l’adamantino
cielo vento infuocato rimena ora nel prato!
Quando la terra, molle d’amore e di sudore,
ubertosa s’apriva con il suo denso odore
di calici e corolle, come l’acqua sorgiva
frescura alla montagna, donava alla campagna
aromi. Fu lieto
di rondini, audace
l’abete segreto,
di stelle vorace
mentre la guglia al vento nella notturna quiete
colloquiava alla luna. Libero fu l’abete.
Nell’arso testamento degli aghi, nella bruna
corteccia che si scheggia, raccolto in sé riecheggia
quell’antica sentenza che Lucrezio, con limpido
verso — “[...] poenas in morte timendum [...]”1 — e con limpido
ingegno all’evidenza trasse da oscura sorte:
perenne attualità per ogni umanità
che vive Natura
senz’alba né morte,
Madre eterna e pura
quanto il fuoco forte!
********************
1 Lucrezio, De rerum natura, libro I, v. 111.
|
Treccia della stella riflessa nella luce di Perugia
Tu guardala dall’alto questa stella distesa
sulle curve serene dei colli, già protesa
al piano, contrassalto di pietre alle catene
contorte degli ulivi, degli olmi ombrosi e schivi,
seguila nelle rapide discese delle case
che l’una l’altra tiene con rostri alle cimase,
oltre la buia lapide, la luna che ora viene
lucente si nasconde tra i comignoli e le onde
brevi dei tetti, ecco:
nel cielo si narra
che strano stambecco
qui fece gazzarra!
Un etrusco, celeste sorriso tra le nuvole
si nasconde nel gioco d’archi, bifore e nuvole,
qual ventilata veste s’apre e s’irradia un poco:
non sai se terra o cielo ti chiami oltre quel velo,
se t’inabissi o sali, rondine sulla storia,
se è pietra, ulivo o sogno che veglia la memoria
diafana dei frontali dei templi emersi in sogno:
armoniosa e infranta qui tutta l’Umbria canta!
Sulla Trinità
dorme una capretta:
nell’ubiquità
va e bruca l’erbetta.
Treccia per via del Paradiso
Al demone etrusco presente in Walter Binni
C’è a Perugia una via fatta solo di scale,
(non delle più famose parlo anch’esse da scale
ornate e d’allegria, dalle ebbrezze fumose,
ciarliere di studenti pensierosi o ridenti
nel saliscendi bello di lingue e di colori),
che s’inerpica austera, lontana dai clamori
estasiati del bello. Di barriera in barriera,
per novantuno scale, come mossa da astrale
potenza, trascina
l’anima alla vetta.
Vedo ogni mattina
l’ombra mia soletta
abbarbicarsi ai selci, farsi chiara e petrosa
sotto il bell’arco a mandorla, poi scivolare acquosa,
come le molli felci su un greto: una farandola
di fanciulli e piccioni nelle belle stagioni
rumoreggia nell’aria celeste del mattino.
Sotto i blocchi di pietra poderosi mi ostino
a godere dell’aria che schiaffeggia la pietra
tollerante dell’arco: ma una linea varco
di una sacra via
e un antico incanto
spezzo in allegria?
E or di che m’incanto?
Treccia per Corso Vannucci
Com’è bello da vivo nascondersi in un grande
cappotto e poi guardare la luna! Le ghirlande
d’argento dell’ulivo danzano al biancheggiare
sottile dei pensieri: furono desideri
un tempo virginali, poi profumi e fogliame,
nel cuore della terra fiammeggiante pietrame!
Con occhi musicali riaccesi sulla terra
al di là d’ogni tempo si sta dentro ogni tempo
e cambia festosa
ora in questo Corso
ogni esile cosa:
continuo ricorso
di pietre ingentilite dal pennello dell’arte:
già remote foreste fiorenti in ogni parte
fummo poi intenerite da linfe e da tempeste
e il vento sulle soglie turbinoso ora scioglie
il cielo tra le pietre, Perugia! Qui t’aduni,
qui alle stelle t’innalzi, nelle sere t’abbruni
d’inverno, quando cetre di vento e sobbalzi
d’incanti alla Fontana dalla fulgida tana
del solingo ingegno,
fraterno e sfuggente,
l’Etrusco il suo segno
lasciò sorridente.
Treccia per l’Amiata
A Giovanna e Walter Cremonte
Quando il tempo si sgrana leggero e tutt’intorno
vibra l’aria più chiara, più tenera del giorno
«un po’ di maggiorana» — chiedi — «insieme alla cara
mentuccia, all’erba luisa»… Nella voce indecisa
l’allegrezza s’incrina, dal cupo marroneto
smotta per le viottole fino ai sassi del greto,
lungo la serpentina s’invena nelle frottole,
nel sangue dell’infanzia, la trasparente infanzia:
nel bosco d’Amiata
magma peperino,
faggina argentata
respiri in cammino:
sono faggiprofeti con gli occhi incastonati
dentro le roccefoglie di dirupi incavati,
diroccati poeti dalle sillabe spoglie,
coriandoli di sole tra fraterne parole.
Qui alchimisti ed astronomi, minatori e mezzadri
esplosero marroni nei focolari, ladri
d’arnie e miele da autonomi decreti, da carboni
mistici liberati, da utopia bruciati:
respirano i sassi
sangue di giustizia,
acque, faggi e sassi
sono già letizia.
|
Treccia delle betulle in fiore
Dormono calde nuvole nei boschi di betulle
dove il cielo s’impiglia tra i pini e le fanciulle,
liete come le nuvole, vanno nella fanghiglia:
il sole silenzioso guarda calmo e festoso.
Sembrano volar via su pattini d’argento
leggere e variopinte bambine controvento:
è l’acre profezia delle braci indistinte,
accese nell’assenzio, poi spente nel silenzio.
S’accorda alla terra
come inquieto velo
il cielo, poi sferra
sulla terra il gelo.
La foresta dispiega la potenza del verde,
una luce s’incarna tra umidi rami, perde
forza il vento. Si piega sulla rossiccia marna
un giovane alberello. Vola raso un uccello…
poi s’alza e sfiora il bianco delle betulle in fiore:
è il cerchio che ripete la gioia del colore.
Com’è ferita al fianco la grazia dell’abete!
Un umile lacerto sanguina a cielo aperto.
La linea bella
del bosco e del mare
con viva favella
muove a poetare.
Treccia degli elfi nel fuoco dei camini
S’incrociano più azzurre di cielo e di catrame
le strade e gli alti pini. Profumi di legname.
Qui mi lascio sedurre dal fuoco dei camini
e dalle antiche favole degli elfi, gnomi e diavole.
E l’anima si posa sul filo delle grate,
sul fumo e sull’odore delle leggende alate,
va e danza senza posa col vento e con le spore,
si fa fiocchi d’argento perlati di sgomento
e s’incurva e s’alza
sul ribes, sul melo,
lieve ad ogni balza
per l’ansia del gelo
che a settembre s’annuncia nelle vene bluastre
della sera, nel crocchio delle pigne salmastre.
Qui l’anima rinuncia, s’insinua nel nocchio
di una gemma dormiente, di una sparsa semente:
da un oscuro pertugio mira lo scintillio
della volta cadente delle stelle, nel pio,
misterioso rifugio di un’estasi incipiente,
poi torna a volteggiare, persa nel focolare:
rossa eternità
di luci e di fumi,
sta felicità
tra spire e profumi.
Treccia dell’alba e delle torri
Dal mare alla città l’alba e le torri guardano:
gli occhi delle fioraie premurosi s’attardano
ai bouquets di lillà. Sotto le colombaie
si anima una strada lucente di rugiada.
Rododendri impalpabili rincuorano i colori
diafani dell’aurora. Smottano pescatori
a piagge inaccessibili. Non v’è nido o dimora
più ricolmo di vuoto dell’apparente moto
dell’alba che plana
dal mare alle torri
nel bianco nirvana
che in sogno precorri.
E lieve in trasparenza la luce appena nata
sommuove il sottobosco, penetra trasognata
nella mite nescienza delle rose del chiosco,
al ritmo infranto e vago di un uccello di lago,
s’incurva sulle calde tegole rosse, segue
nuvole di cicogne remiganti, prosegue
lungo le dolci falde della memoria: Progne,
madre infelice e rondine, nel volo della rondine
che crolla e riparte
fu pura e fu salva.
La luce dell’arte
ancora ci salva.
|
Paolo Ottaviani è nato a Norcia (Perugia), nell’estrema parte nord-orientale dell’antica Sabina. Laureatosi in filosofia con una tesi su Giordano Bruno, ha successivamente pubblicato saggi sul naturalismo filosofico italiano.
Ha fondato e diretto la rivista «Lettera dalla Biblioteca». Collabora a numerose riviste specializzate e multimediali con saggi, recensioni e articoli di interesse letterario. Attualmente dirige, in terra etrusca, la Biblioteca dell’Università per stranieri di Perugia.
Con le Edizioni del Leone (che si trovano a Spinea in provincia di Venezia), ha pubblicato due volumi: la raccolta di liriche Funambolo (uscita nel 1992 con una prefazione di Maria Luisa Spaziani) e il poemetto bilingue Geminario, del 2007, vergato in un originale idioma neovolgare che, in movimento alternato con la lingua italiana odierna, riecheggia i volgari due-trecenteschi, comprese le arcaiche, suggestive sonorità di quei componimenti poetici che segnano il passaggio dalla metrica dei ritmi bassolatini alla metrica italiana accentuativa.
|
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
È vietato l’uso commerciale e la rimozione delle informazioni di Copyright
|