Una recensione
a cura di Lucia Visconti
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Parole morte è l’opera prima di un insegnante di educazione musicale nato ad Andria (Bari).
Il protagonista, una sorta di bohémien, lascia la casa paterna per incompatibilità con il padre, figura rigida, formale, schiva.
Si allontana anche dal fratello, alter ego del capofamiglia, e poi dal paese dell’Italia meridionale, troppo stretto per le sue attese.
Non ci saranno mai nel corso dei vent’anni successivi, parole per ricucire il rapporto. “[...] parole morte [...]”, appunto, come l’io narrante mediterà di dire alla nipotina, quando, costretto dall’improvviso decesso dell’anziano, dovrà tornare a casa. Qui troverà una lettera per lui scritta dal padre, ma non riuscirà a leggerla. “Ho paura. Cosa conterrà? Ho paura, leggendola, di dover smantellare, di colpo, l’immagine consolidata, in fondo rassicurante del padre che mi ha accompagnato tutti questi anni; a volte perseguitato, ponendosi tra me e la mia volontà. Ho paura della verità… Sia che possa svelarmi un uomo diverso, sia che possa contenere il tentativo estremo di una riconciliazione impossibile. O, forse, sono semplici parole di commiato”. L’iterazione della confessione “ho paura”, riassume con forza tutta la tragedia di una famiglia spezzata. Questo in definitiva il cuore del testo.
Più tardi, quando ormai potrebbe ripartire, conoscerà casualmente per bocca del parroco del paese, il segreto della vita del padre, così preoccupato di salvare le apparenze di una famiglia al di sopra di ogni sospetto, perché nessuno subodori che ha avuto esperienza di ospedale psichiatrico.
Il racconto ha dell’autobiografico, o perlomeno di una proiezione autobiografica.
Come fotografati i dettagli di luoghi e persone arricchiti dai suoni. Impossibile per un musicista non farvi appello: “Il quartiere. Me lo ricordo come un formicaio. I venditori ambulanti, i loro versi […] il suono di una campanellina annunciava l’arrivo del lattaio, di mattina, molto presto. Più tardi il fruttivendolo trascinava avanti e indietro un carretto stracolmo dipinto di verde. E ancora il venditore di olio, la sua cantilena, sinuosa come una melodia araba. La domenica, per santificare la festa, il venditore di lupini e frutta secca. Il repertorio si ampliava d’estate, quando, bambini, si aspettava impazienti il verso del gelataio” (p. 39).
E a pagina 12: “L’uomo inarca le sopracciglia, brizzolate […] vedo i baffetti a spazzola ben tenuti, le pieghe malinconiche delle guance cascanti. Un sorrisetto accondiscendente. È tozzo; la voce pacata di chi ha smesso il fardello dei sogni per necessità”.
Felice l’esposizione degli stati d’animo. Troviamo a pagina 11: “In situazioni come questa, mi capita di desiderare, di immaginare che sia una musica, qualcosa come una colonna sonora, a prendere forma di pensiero, di parole; mi risparmierebbe la fatica di cercarle, le parole, all’interno di un centro che mi sfugge di continuo; come adesso che la città mi scorre davanti in una sequenza da film muto”.
Il dialogo con la nipotina, a cui prima si accennava, richiama la tipologia del lied, per il lirismo che sprigiona: “Come spiegare ad Adele, la finzione che ci teneva insieme e il silenzio opprimente, nel quale ogni parola si inabissava senza lasciare traccia? Come farle comprendere le parole morte, quel codice che ci permetteva di tenere in piedi la finzione quotidiana e che si aggrappava a involucri logori, svuotati?” (p. 31).
Complimenti al giovane scrittore!
Il lavoro potrebbe essere spunto anche per un’operetta. Chissà se il De Nigris si sentirà di darle il suono?
Lucia Visconti
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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