Una recensione
a cura di Matteo Meschiari
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In nove capitoli, un’appendice e centoventotto pagine (a onor del vero graficamente fitte), Massimo Centini ci parla della wilderness, o meglio ci dà un esempio di ricezione europea e soprattutto italiana di un concetto che è piuttosto ambivalente — e ostico da inquadrare di preciso — persino in America, dove di fatto può designare il rapporto con la natura selvaggia di un buddista come Gary Snyder ma anche di un cacciatore di cervi armato di fucile. Il compito dell’autore di questo libro era dunque titanico, tenendo conto delle decine di migliaia di pagine scritte sull’argomento, delle centinaia di siti internet correlati, della nature writing così coltivata oltreoceano e inesistente qui da noi. Un compito titanico perché, come dicevo, non si trattava di fare il bignami di quello che c’è “laggiù”, ma bisognava ammannire la pietanza a un pubblico locale, che non ha mai letto nulla di Wendell Berry, di Christopher Camuto, di James Kilgo, di John Lane, di Aldo Leopold, di Barry Lopez, di John Muir e di una trentina d’altri maggiori (solo il primo, noblesse oblige, è citato da Centini, assieme all’intramontabile Henry David Thoreau). Il lettore un po’ informato si chiede allora perché, di fronte all’occasione preziosa di far conoscere al pubblico italiano una via di pensiero “altra”, così profondamente diversa dal punto di vista europeo, Centini abbia scelto di parlare dottamente con e attraverso le voci della Arendt, di Bataille, di Cassirer, di Eliade, di Jünger o di italiani come Assunto, Bertone, la Bonesio, Evola, La Cecla, Marchetti, Turri che (si sa che non esagero) con l’idea di wilderness hanno a che fare solo in modo molto molto circostanziale. Ci si chiede inoltre perché l’approccio antropologico dell’autore vada al ripescaggio di autori come Clifford, Geertz, Kilani, quando avrebbe potuto farci conoscere un po’ meglio la landscape anthropology anglosassone, la human ecology di Paul Shepard o gli studi etnoantropologici di Ted Kerasote o di Richard Nelson, che hanno tutti direttamente a che fare con la wilderness. Ma la risposta non è tanto nelle premesse culturali dell’autore, quanto in quelle a lui fin troppo omogenee di una nazione come la nostra, in cui la wilderness viene ormai sdoganata come la vecchia visione estetica del “paesaggio”, solo un po’ più arruffata, solo un po’ più inselvatichita, e ovviamente pencolante tra superomismo rivisitato e spiritualismo new age. Perché non basta citare Emerson e Thoreau per esaurire il discorso sugli Stati Uniti: dovremmo, da europei, seguire invece le orme di Werner Herzog e del suo Grizzly Man, un film che non si accontenta (come avrebbe fatto il “tenero” Michael Moore) di liquidare il rapporto degli americani con la natura selvaggia come un gioco consumistico e infantile, ma che scava a fondo, fino a cogliere il nocciolo vivo di una tensione di Rischio e di Morte che è parte integrante dell’idea di wilderness. E se Grizzly Man è uscito dopo il libro di Centini, privando l’autore di un riferimento imprescindibile da qui in avanti per parlare di wilderness in Europa, è pur vero che in Italia era stato tradotto ormai da anni un bellissimo libro del vincitore del Premio “Pulitzer” Jon Krakauer, Into the Wild1, libro che sottolineava proprio questa idea di limite, di critica, di distruzione in sé dei modelli acquisiti e che, anche se in ritardo, è stato riscoperto in Italia grazie al film applauditissimo di Sean Penn. In definitiva, per situare il volume oggetto di questa recensione, bisogna ricordare che anche il lettore più disinformato merita rispetto: invece di cercare risolutamente l’Altro, come proprio l’antropologia chiede di fare, Centini ha ricondotto a “casa-Italia” tutto quello che poteva, avallando delle direttive culturali (non arrivo a pensare editoriali) che sono riuscite a livellare la radicalità antiestetizzante, antistorica e politicamente scorretta dell’idea di wilderness. Leggetevi ad esempio le conclusioni: dalle foreste del Maine scivoliamo dolcemente nella garden therapy, e tra una tisana di Evola e un aroma di Shama ci ritroviamo in una pallida lirica di Leopardi. Ovviamente senza i leopardi.
Matteo Meschiari
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1 Jon Krakauer, Into the Wild, Anchor Books, New York, 1997.
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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