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Una recensione 
a cura di Simonetta De Bartolo
 
 
 
 
 
 
 
Carla Saracino, 
I milioni di luoghi
LietoColle, Faloppio, 2007
 
 
Il verso iniziale della lirica, con cui Carla Saracino apre la sua raccolta I milioni di luoghi, fissa senza possibilità di equivoco due basilari premesse: incertezza esistenziale (“Forse [...]”) ed esigenza insopprimibile di amare, il cui oggetto resta, però, indefinito, ma non è certamente la vita (“ibrido strano fra nascita e assopimento”), priva di sbocchi e di spiragli finalistici, così come — da un lato — di consolatori progressi che controbilancino la precarietà e la totale sconfitta dell’esistenza umana, e — dall’altro — di significati, di rinvenimenti delle cause di quell’ungarettiano “non sentirsi in armonia con l’universo” e di quel dissolversi senza rumore nella “[...] comunione della specie [...]”, in preda ad una paralisi spirituale. 
La parola poetica risalta per una essenzialità che confina spesso col non detto, ma nello stesso tempo rivela con forza aspetti insoliti del reale, sostanzia l’usuale di nuovi significati, mentre il discorso poetico nel suo insieme, apparentemente frammentato e tendente ad una giustapposizione concettuale, procede per pennellate sobrie, sicure, per nulla indulgenti allo sfumato, prive di qualsiasi compiaciuta analisi del proprio io, fissando sul canovaccio degli universali interrogativi esistenziali la cruda realtà dell’avvicendarsi delle stagioni, che scivolano veloci, senza lasciare orma, nel non senso, in una morte che accomuna e riduce tutto e tutti a cenere senza odore, a silenzio, di fronte al quale si rimane assorti in una compassione che non provoca sommovimenti interiori, che non rende attori né della tragicità degli avvenimenti, né di un personale colpevole dramma, ma lascia spettatori dal volto represso dall’insufficienza delle cause, segnato dalla rinuncia, dalla disfatta, dall’insoddisfazione. 
Né “i milioni di luoghi”, le luci, i caldi aromi, il recupero memoriale, le forzate illusioni del bello e della felicità attenuano lo smarrimento, scalfiscono la disillusione, offrono un “ubi consistam”, sopperiscono al non luogo, poiché “le cose nascono finite/ e trasmigrano in parole basse o anche bellissime”, rincasano nel verbo, prede del ritmo indisciplinato di meccanismi ed eterne continuazioni e sparizioni dominati da una natura che non avverte il dovere d’indicarne un senso, destinati irrimediabilmente ad “un invecchiamento soffocato,/ ristretto nelle corde dell’usura”, “sulla linea dell’inverno”. 
 
Simonetta De Bartolo
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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