Il sentiero
“della memoria e delle radici”
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“Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. A ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente”.
(Simone Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Mondadori, Milano, 1996, traduzione di F. Fortini)
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Carlo
-Un racconto di Pierluigi Ambrosini (4ª puntata)-
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IV
Che non fossi più lo scavezzacollo di un tempo lo dimostrava quanto mi fossi lasciato turbare da un secondo, banalissimo avvenimento. Nell’intervallo, a scuola, mentre mangiucchiavo una merendina, con circospezione e colpetti di tosse, si era avvicinato un compagno. Uno fra i più insopportabili, che proponeva anche ad un neosanto un invito pressante a spaccargli il muso, dapprima, successivamente a collocargli sotto il sedere montagne di puntine da disegno. Ripetente, colui, pettegolo, malevolo, maldicente, le mani sudaticce, emblema di una razza che — ahinoi! — pare si perpetui. Conclusi i preamboli, mi chiese di poter visitare la stazione. Richiesta per niente inconsueta; grazie al lavoro di mio padre spesso i miei compagni me lo chiedevano.
«Non mi sembri particolarmente interessato», gli risposi.
«Che dici? Vado matto per i treni, a casa ho cinque locomotive Rivarossi e dodici vagoni, più quattro scambi... ».
Anche se avesse collezionato duecento locomotive e settecento vagoni — ma non era vero — a me non andava di averlo tra i piedi e di sciuparci un pomeriggio ma, sospettando che dietro la sua richiesta si nascondesse dell’altro, sbuffai e accondiscesi.
Avevo accesso, seppure pedinato, ai locali che maggiormente incuriosiscono i ragazzi: da dove si manovrano i semafori e gli scambi, l’altoparlante segnala le partenze, gli arrivi, i ritardi...
Il mio esimio compagno di classe, inteso il mio sì strascicato, non indugiò: quello stesso pomeriggio si presentò davanti al portone di casa. Era passata meno di un’ora dall’uscita da scuola: roba da record mondiale.
«Ciao», mi disse.
Gli risposi con un cenno del capo ed in silenzio c’incamminammo verso la stazione. Incominciai il giro turistico: io davanti, il fesso dietro, Walter ancora più dietro.
Come avevo previsto, il mio compagno ciccione non era minimamente interessato ai treni; mi seguiva, annuiva alle mie parole ma non ammirava la magnificenza delle locomotive: apparteneva all’esiguo numero di ben stolti ragazzi che non si emozionano al passaggio di un treno. Applicai allora la tattica che definivo “del rischio”, quella che con imbecilli di quel calibro prediligevo. L’avevo condotto a vagare fra i binari dove le pensiline terminano e gli scambi incombono; un po’ di tremarella, per chi non sa districarsi, è doverosa.
Bastava attendere… ma neppure a lungo. Dopo meno di un minuto il bel soggetto gettò la spugna; tremebondo, mi supplicò di allontanarci da quell’inferno.
Non appena al sicuro, mi rivolse la domanda che lo aveva indotto a compiere quella sfilza di manfrine: «Hai un cane?».
«No!», il monosillabo della mia tanto immediata, quanto decisa, risposta.
«A scuola molti affermano che... ».
Gli ribattei: «Tu l’hai visto, per caso?».
Insisteva: «Ce ne sono di posti qui... ».
Finora mi ero trattenuto: «Se ti ho detto di non possederlo offenderei la tua intelligenza e la mia dignità mostrandoti la cantina ed il solaio di casa perché nessuno nasconde un cane in cantina o in solaio».
Non si dava per vinto: «Riferiscono di un cane che parla, che forse scrive... ».
«Che è stato scritturato per una tournée con Celentano… ».
Del responsabile, meglio, della spiona conoscevo il nome ed il cognome, e sarebbe convenuto iniziare a tremare a colei. Al momento però mi era imposto di escogitare un espediente per distruggere definitivamente le velleità di questo idiota alla ricerca di un cane parlante senza rendersi conto che per trovare bestie dotate di voce gli sarebbe bastato attendere l’indomani: allora ne avrebbe ammirato un gruppetto nei volti dei suoi (e purtroppo miei) compagni di classe.
La buona sorte mi venne in aiuto. Sulla porta di casa si era affacciata la mamma. La vidi, mi vide, le gridai con tutto il mio fiato e con tutta l’ansia della mia età: «Hai pronto il solito regalino per Buck?». Mi ero girato verso il citrullo e mi ero espresso a voce altissima in modo che anche la mamma intendesse: «È il cane del vicino, viene a farci visita ogni sera».
Prima di avere avuto il tempo di completare mentalmente l’Ave Maria, la mamma, sulla cui smisurata intelligenza avevo contato, mi ribatté: «Non me lo chiedi un po’ in anticipo? Sai che giunge alle 19:00, puntualissimo».
Il buontempone alzò bandiera bianca, sbirciò l’orologio, balbettò che si era fatto tardi.
«Come, te ne vai già?».
Fingevo uno stupore che mascherava la gioia di levarmelo dalle tasche.
«Eh sì, purtroppo… A casa mi aspettano, ho anche preso freddo, temo che mi venga un raffreddore, ho inoltre dei compiti da completare».
«Promettimi che tornerai: con te ho trascorso un piacevole pomeriggio. Ho notato che sei molto coraggioso; ti confesso che ne dubitavo, ma tu non te la sei fatta sotto quando i treni ci sono passati a mezzo metro… ». Non si rendeva manco conto che stavo prendendolo per il fondoschiena.
Quello non promise, si mantenne sulle sue, si scusò nuovamente e se ne andò verso casina sua, a farsi preparare una boule d’acqua calda ed una camomilla dalla mamma (ammesso che a casa una madre ce l’avesse, se una donna l’aveva partorito).
Mai avevo abbracciato tanto intensamente la mia mammina, che non mi domandò di riferirle il pasticcio che c’era sotto: preferiva restare all’oscuro, conoscendomi...
Torniamo adesso alla colpevole. Lo era la pseudosignorina alla quale mi ero rivolto per ottenere la parrucca, non possedendone una la mamma. Dovevo ammettere di essermi comportato da gran fesso. Per giustificare la mia richiesta non avevo escogitato niente di meglio di dire a quella stronza di una femmina che avevo in mente di tendere un tranello ad un animale alquanto stravagante.
Che cacchio mi era passato per la testa? Perché avevo escogitato una scusa tanto strampalata? Perché non mi ero limitato ad inventare una festa mascherata? Forse perché era troppo semplice, ed il grand’uomo che io mi reputavo il rischio ce l’aveva nel sangue.
«Non dirmi che in casa avete un lupo, una tigre… ».
Mi convinsi che era più scema della media delle femmine.
«Perché non una giraffa od un ippopotamo?... Ascoltami, si limita ad un cane; beh non è un vero cane, ma è come se lo fosse… Basta, di più non posso dirti, già mi sono spinto troppo in là. A me interessa solo che tu prometta che manterrai il silenzio a qualunque costo».
Sei o sette volte mi aveva giurato che l’avrebbe mantenuto: e sui suoi genitori, e sulle sue bambole, e sulla sua linguaccia… Purtroppo non era venuta meno alle prerogative femminili e aveva spiattellato il segreto. Così la mia si era limitata alla vittoria di una battaglia che mi costringeva a rimanere come un salame dentro la cantina.
Alla mia sciagurata compagna faticavo a non rovesciare addosso un gavettone d’acqua con dentro ogni ben di Dio ogni volta che era a gingillarsi nel bagno della scuola; temevo che, se pescato da un solerte bidello, avrei procurato più di un grattacapo ai miei genitori, e questo non lo volevo.
Ero molto preoccupato, inutile nasconderlo. Con la mamma fingevo, ma il suo silenzio ostinato nel non chiedermi niente era la conferma di quanto anch’ella fosse preoccupata. Come non immaginare che dei compagni ficcanaso non sarebbero accorsi ad ammirare il cane che alle 19:00, puntualissimo come il tocco del campanile di San Marco, appariva?
Mi bastò tenere d’occhio i compagni di classe per individuare il gruppetto che covava questa idea. Ma se la loro sorpresa aveva un’ora esatta, il giorno scelto era il pezzo mancante del puzzle. E poiché è risaputo che la fortuna aiuta chi la cerca, di nuovo la ebbi dalla mia: la sera da loro decisa coincideva con quella da me calcolata.
Già avevo architettato, in uno sprizzo d’altri tempi, un’accoglienza che li avrebbe appagati e, soprattutto, mi avrebbe appagato. Avrei prelevato dal deposito della stazione alcuni razzi, di quelli che vengono utilizzati in caso di nebbia, li avrei legati tra loro e... All’ultimo minuto vi rinunciai. Per mio padre la stazione ed ogni sua pietra erano sacre più di una mucca per gl’induisti: a me non andava di rattristarlo e neanche di coinvolgere un incolpevole Walter. Una rinuncia che compii davvero a malincuore, con già l’acquolina in bocca… Optai così per un’accoglienza più blanda.
Un ferroviere, che abitava con la famiglia nel casotto del passaggio a livello che immetteva nella stazione, possedeva un boxer dal pelo marrone intenso che si agitava ed abbaiava con la frequenza con la quale un uomo che sta spirando ansima. Per quanto più innocuo di un moscerino, l’animale terrorizzava neonati e centenari, motocicli e tram. Io, dopo avere prelevato la bestia (non era permesso rifiutare un piccolo favore al figlio del capostazione) e avere a lungo e con ineccepibili argomentazioni rassicurato il suo padrone circa le mie intenzioni, avevo legato e rinchiuso detta bestia senza acqua e senza cibo nello sgabuzzino sul retro dell’orto. Avevo scelto il posto più discosto dalla casa così i miei non avrebbero inteso i guaiti. Ad ogni buon conto mi ero premurato bloccando il muso del cane con un legaccio.
Come gl’intrepidi miei compagni raggiunsero il muro e scavalcarono il cucuzzolo, slegai e spalancai la porta al caro boxer; affamato, assetato, torvo, il cane si slanciò fuori. (Con gli occhi rappresentai anche il levarsi dei razzi, il loro fragore, il loro bagliore... Ma solo con gli occhi della mia indomita fantasia). Fu, per i miei cari amici e compagni, una fuga senza ombra di dignità... beh, avrebbe inteso essere una fuga se il sentiero non fosse stato cosparso di olio, di ortiche, di sassi bene appuntiti. L’anima santa di mio nonno materno aveva interceduto affinché, pur senza eccedere, per cinque minuti ritornassi il bucaniere che dal cielo aveva tante volte ammirato.
Pierluigi Ambrosini
[Continua... ]
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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