Margot Croce
Favole da raccontare 
 
 
Ho vita dentro, sì, me ne rendo conto. 
Un vissuto così incastrato tra il femore e la tibia 
che a volte mi fa zoppicare. 
Mi fa attrito e brucia di dolore. 
Se fossi favola o mito o fantasia protratta 
l’amore sarebbe trasparente e 
giocherebbe coi capelli come l’aria 
ma tutto in me raddensa, 
diventa lattiginoso e opalescente, 
torbidamente inquieto 
privo di prospettiva. 
La casa fa la sua testimonianza, 
ogni scalfittura sui muri ha la sua storia 
e stendo nervi dove appendere 
bucati tristi rapidi di sole. 
Che sia questo o l’altro 
o l’uno o il terzo o l’ennesimo assassino 
rapace e ladro di emozioni 
non cambia nulla nel finale. 
Tra il femore e la tibia 
ho questo incastro 
così restio al lieto fine, 
scalpella ogni muscolo 
e rammollisce le mie gambe. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non so come chiamarti 
 
 
Lo spazio tra di noi l’ho consumato. 
È diventato esile, 
come un respiro appeso ad un polmone 
che resta al caldo e non vuole uscire. 
Quella fragilità che si riflette a specchio, 
e l’acqua che si distende in manto 
in una coperta liquefatta e liquida, 
lasciano una patina umida che evapora 
lenta tra le onde dell’affetto. 
Ho avuto tanti anni per pensare 
ma tanti, che il pensiero è diventato aria 
ed io sono volata come un palloncino 
nel cielo di una festa di paese, 
tra un trombone stonato della banda 
e la nota fragorosa dei piatti lucidi e ottonati. 
Sono cresciuta su una bicicletta 
con voraci pedalate tentavo di volare, 
seguita da un gatto ad ogni strada 
arricciavo sogni ai bigodini. 
E nei miei sogni tu eri sempre assente 
che almeno quello spazio fosse mio 
lo pretendevo e non cedevo 
neanche un centimetro di pelle 
a quella sofferenza ottusa 
che bastarda mi svegliava ogni mattina. 
Lo spazio è così angusto e limitato 
che è quasi una fessura e l’aria stenta a respirare. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sushumna 
 
 
Sto, 
accanto all’amore, 
scostata di lato, 
come un ospite inatteso 
immobile e vibrante, 
serpente nell’ombra 
a cambiar pelle, 
in nudità umbratile e feroce, 
gravida di sensi da partorire.
 
Nota biografica
La poesia ci rende fragili e allo stesso tempo ci estrania dalla nostra fragilità attraverso una estroflessione continua di quelle parti di noi così dolorosamente percepite. Hölderlin diceva che “dov’è il pericolo c’è anche la salvezza”, e la poesia è pericolo e salvezza insieme, una lucida follia. In questo svolgersi ambivalente, si attua l’esposizione di sé, delle proprie cadute uroboriche esistenziali, delle intrusioni nel sentimentalismo più “bieco” e più denudante. 
Mi chiamo Margot Croce, vivo ad Ancona, scrivo e pubblico su vari siti letterari. Molto di ciò che scrivo lo trovi nel mio blog personale: www.aleteiapoetry.splinder.com
Per il resto “non sono nessuno, amo solo cercare i sentieri che conducono alle epifanie del senso”.
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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