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Favole da raccontare  
Ho vita dentro, sì, me ne rendo conto.  
Un vissuto così incastrato tra il femore e la tibia  
che a volte mi fa zoppicare.  
Mi fa attrito e brucia di dolore.  
Se fossi favola o mito o fantasia protratta  
l’amore sarebbe trasparente e  
giocherebbe coi capelli come l’aria  
ma tutto in me raddensa,  
diventa lattiginoso e opalescente,  
torbidamente inquieto  
privo di prospettiva.  
La casa fa la sua testimonianza,  
ogni scalfittura sui muri ha la sua storia  
e stendo nervi dove appendere  
bucati tristi rapidi di sole.  
Che sia questo o l’altro  
o l’uno o il terzo o l’ennesimo assassino  
rapace e ladro di emozioni  
non cambia nulla nel finale.  
Tra il femore e la tibia  
ho questo incastro  
così restio al lieto fine,  
scalpella ogni muscolo  
e rammollisce le mie gambe.    
Non so come chiamarti  
Lo spazio tra di noi l’ho consumato.  
È diventato esile,  
come un respiro appeso ad un polmone  
che resta al caldo e non vuole uscire.  
Quella fragilità che si riflette a specchio,  
e l’acqua che si distende in manto  
in una coperta liquefatta e liquida,  
lasciano una patina umida che evapora  
lenta tra le onde dell’affetto.  
Ho avuto tanti anni per pensare  
ma tanti, che il pensiero è diventato aria  
ed io sono volata come un palloncino  
nel cielo di una festa di paese,  
tra un trombone stonato della banda  
e la nota fragorosa dei piatti lucidi e ottonati.  
Sono cresciuta su una bicicletta  
con voraci pedalate tentavo di volare,  
seguita da un gatto ad ogni strada  
arricciavo sogni ai bigodini.  
E nei miei sogni tu eri sempre assente  
che almeno quello spazio fosse mio  
lo pretendevo e non cedevo  
neanche un centimetro di pelle  
a quella sofferenza ottusa  
che bastarda mi svegliava ogni mattina.  
Lo spazio è così angusto e limitato  
che è quasi una fessura e l’aria stenta a respirare.    
Sushumna  
Sto,  
accanto all’amore,  
scostata di lato,  
come un ospite inatteso  
immobile e vibrante,  
serpente nell’ombra  
a cambiar pelle,  
in nudità umbratile e feroce,  
gravida di sensi da partorire.
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La poesia ci rende fragili e allo stesso tempo ci estrania dalla nostra fragilità attraverso una estroflessione continua di quelle parti di noi così dolorosamente percepite. Hölderlin diceva che “dov’è il pericolo c’è anche la salvezza”, e la poesia è pericolo e salvezza insieme, una lucida follia. In questo svolgersi ambivalente, si attua l’esposizione di sé, delle proprie cadute uroboriche esistenziali, delle intrusioni nel sentimentalismo più “bieco” e più denudante.  
Mi chiamo Margot Croce, vivo ad Ancona, scrivo e pubblico su vari siti letterari. Molto di ciò che scrivo lo trovi nel mio blog personale: www.aleteiapoetry.splinder.com.  
Per il resto “non sono nessuno, amo solo cercare i sentieri che conducono alle epifanie del senso”.
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001  
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