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i Quaderni utili 
-Per disvelare in poesia l’universo femminile-
“i Quaderni utili” vogliono essere un omaggio ad alcune poetesse italiane contemporanee da parte di poeti ancora sconosciuti. Con umiltà e gratitudine. 
Un’occasione per esplorare un lato oscuro di quella magnifica forma espressiva che è la poesia: l’universo femminile. Perché fino a poco tempo fa la donna gravitava attorno al centro dell’universo maschile. E da questo veniva immaginata, sognata, agognata, adorata, per poi essere scritta, dipinta, scolpita, cantata, fissata per sempre in forme artistiche sublimi, ma pur sempre dal punto di vista maschile, solo maschile. Fissata per sempre, appunto. Per secoli ingabbiata dal potere maschile, trattata come un oggetto d’ispirazione e desiderio; costretta, insomma, a non immaginarsi, pensarsi, scriversi. 
Come ha osservato Virginia Woolf nel 1928, è uno strano mostro quello che si scopre leggendo storici e poeti: “Un verme con le ali di un’aquila; lo spirito della vita e della bellezza, rinchiuso in cucina a tagliare il lardo”1
Una donna allontanata dalla sfera economica, compreso il mondo dell’editoria e dell’arte in generale, e chiusa in scomode case contadine prima, in comode magioni borghesi dopo. A questa coercizione sociale, a questa identità domestica costruita e impostale dagli uomini, la donna spesso risponde con la devianza e la trasgressione2. Ma è da considerarsi trasgressione la poesia, o solo la forma espressiva per eccellenza del suo essere stata reclusa senza peraltro avere mai conosciuto le sbarre di una prigione? 
 
Filo conduttore che lega le voci di donne-poeta nel secolo trascorso è il bisogno forte di disseppellire ciò che è stato loro negato troppo a lungo, ciò che loro stesse credevano perduto per sempre, ma che è sopravvissuto alla prepotenza di chi si riteneva superiore. 
Ancora oggi ciò che le donne hanno da dire in versi viene ignorato dalle antologie scolastiche, relegato su riviste specializzate, e confinato là dove s’addentrano soltanto pochi curiosi e coraggiosi. Pregiudizi duri a morire o paura che l’universo femminile possa svelare mondi finora sconosciuti, e per questo temuti? O forse, paura che le capacità della donna risultino pari o superiori a quelle dell’uomo, da sempre ai posti di comando nelle arti, nei mestieri e nelle professioni? 
“La società è fatta per gli uomini. Siamo nel 2004 e non si concepisce la donna che vive sola, che vive di se stessa, che guadagna quello che può. Dà fastidio la donna che pensa, la donna intellettuale”3
 
La poesia femminile del Novecento presenta diverse sfumature, ma ovunque si percepisce la voglia di riempire un vuoto, di riscattare vite spese nel silenzio, ingabbiate dentro divieti maschili più o meno espliciti. Donne in gabbia che riescono a conquistare la libertà attraverso la poesia. E le strade della libertà e della poesia hanno colori diversi: quelli dell’amore e della passione, quelli della follia e del suicidio, quelli della ricerca linguistica o della classicità. Un mondo femminile quanto mai vasto, non solo nei contenuti, ma anche nelle forme espressive. 
“Oh dire, dire a qualcuno il mio dolore, la mia miseria; dirlo a me stessa, anzi, solo a me stessa, in una forma nuova, decisa, che mi rivelasse qualche angolo oscuro del mio destino”4
Quaderni di versi, ispirati ai loro versi e dedicati a chi esprime un universo traboccante di immagini, sensazioni, emozioni e personaggi. Quaderni utili ad ampliare i nostri orizzonti, ad arricchirci di luci e ombre, ad interpretare il ruolo dei protagonisti anche solo per un po’. Quaderni per nulla inutili, come definì una sua raccolta Sergio Corazzini, alla quale mi sono ispirata per la scelta del nome da dare al progetto. 
 
Semplice la realizzazione. Saltuariamente verrà presentata una poetessa. Numerose le citazioni dalle sue opere, che potranno essere utilizzate vuoi come spunto per la composizione di versi e pensieri, vuoi come scrigno a cui attingere sensazioni o immagini, da sviluppare in maniera del tutto personale e spaziando a proprio piacimento dalla poesia alla prosa alle parole in libertà. Ma si dovrà sempre tener presente la figura della poetessa proposta di volta in volta. Ogni autore potrà spedire un massimo di dieci lavori inediti agli indirizzi lorella.debon@katamail.com e staff@labileabile-traccia.com. I lavori ritenuti più validi dalla redazione del portale «L(’)abile traccia» saranno inclusi in un’antologia PDF, dunque virtuale, che comparirà on-line in una sezione apposita del sito. In alcuni casi si procederà a realizzare, dell’antologia di turno, anche una versione cartacea: si otterrà così un volume che, stampato e spedito esclusivamente a spese de «L(’)abile traccia», verrà inviato sia alle biblioteche dell’Umbria (e, eventualmente, di altre regioni), sia alla poetessa che lo ha ispirato, sia — sotto forma di singola copia gratuita — a ciascuno degli autori in esso contenuti. 
 
Premetto che la scelta delle poetesse è del tutto arbitraria, quindi dettata dai miei gusti personali e discutibili. Potrà non essere condivisa, ma spero possa comunque suscitare curiosità e quel minimo di interesse che è da sempre stimolo alla conoscenza. In particolare, mi auguro di cuore che tale iniziativa trovi un ampio riscontro presso gli autori-uomini, evitando di rimanere un territorio esclusivo a loro inaccessibile, per tramutarsi invece in un luogo ove scambiarsi idee, ove creare versi condivisi e sinceri. Naturalmente, sono ben accette le critiche, onde migliorare di volta in volta il percorso intrapreso. 
 
Ho deciso di dedicare il secondo quaderno utile, che sarà solo elettronico, alla grande Amelia Rosselli. Vi invito dunque a sottopormi i vostri materiali. Buon lavoro a tutti. 
 
Lorella De Bon 
per lo staff de «L(’)abile traccia» 
 
 
 
Per consultare la scheda relativa ad Amelia Rosselli, cliccare qui
 
 
 
 
 
1 ^ Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé
 
2 ^ Lucetta Scaraffia, Essere uomo, essere donna, in Anna Bravo, Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia, Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea, Editori Laterza, Bari, 2001. 
 
3 ^ Loris Mazzetti, La poesia accusata di libertà. Intervista ad Alda Merini, «Articolo 21 Liberi di», 13 marzo 2004. 
 
4 ^ Sibilla Aleramo, Una donna; vedi anche Daniela Attanasio, L’incidenza della follia nell’opera di Amelia Rosselli e Alda Merini, «Poeti e poesia», n. 2, 2004 e Marisa Ferrario Denna, Itinerario novecentesco nella poesia al femminile (relazione di cui si è data lettura presso la Biblioteca dell’Istituto d’istruzione superiore “Edith Stein” di Gavirate — Varese —, durante un convegno del 23 febbraio 2001, e della quale è disponibile un’ampia sintesi all’indirizzo web http://digilander.libero.it/bibliis/Poesia%20femminile/poesia%20al%20femminile.htm).
 
Amelia Rosselli 
-La scheda-
Le informazioni contenute in questa scheda provengono dalle seguenti fonti: 
 
 
Maria Clelia Cardona, Amelia Rosselli: la poesia, la vita, in M. Gigliotti (a cura di), Per Amelia Rosselli, Archivi riuniti 
delle donne-Unione femminile nazionale, Milano, 2000, pp. 7-8. 
 
Antonella Anedda, Amelia Rosselli. L’attraversamento della notte, in M. Gigliotti (a cura di), op. cit. (vedi sopra), pp. 9-14. 
 
Amelia Rosselli, Le poesie, Garzanti, Milano, 2007, a cura di Emmanuela Tandello. 
 
Daniela Attanasio, L’incidenza della follia nell’opera di Amelia Rosselli e Alda Merini, «Poeti e poesia», n. 2, 2004. 
 
Andrea Ponso, Gli ingranaggi della solitudine. Appunti sparsi sulla poesia di Amelia Rosselli, «L’Ulisse di LietoColle. Argomenti di poesia e pratica culturale», n. 2, 2004. 
 
Giovanni Scirocco, Casa Rosselli. Intervista a Giuseppe Fiori, www.circolorossellimilano.org, Milano, 1999. 
 
Poesia italiana, volume VI, La biblioteca di Repubblica, Roma, 2004. 
 
Mariella Bettarini, Per una intervista inedita ad Amelia Rosselli (10 dicembre 1979), in Stefano Giovannuzzi (a cura di), Amelia 
Rosselli: un’apolide alla ricerca del linguaggio universale. Atti della giornata di studio, Gabinetto “Giovan Pietro 
Vieusseux”, Firenze, 29 maggio 1998, «Quaderni del Circolo Rosselli», n. 17, 1999, pp. 82-86.
 
 
 
Nata a Parigi travagliata nell’epopea della nostra generazione 
fallace. Giaciuta in America fra i ricchi campi dei possidenti 
e dello Stato statale. Vissuta in Italia, paese barbaro. 
Scappata in Inghilterra paese di sofisticati. Speranzosa 
nell’Ovest ove niente per ora cresce”. 
(Amelia Rosselli, Variazioni belliche, Garzanti, Milano, 1964
 
“Nata a Parigi [...]”… Amelia Rosselli nasce a Parigi nel 1930. 
In Francia il padre Carlo, uno dei capi italiani della resistenza antifascista ed eroe della guerra di Spagna, si era rifugiato nel 1929 dopo essere scappato da una prigione fascista. Carlo è un padre e un marito assente, totalmente impegnato nella politica. “Fino a quale limite un uomo, un marito, deve sacrificare la famiglia per l’ideale?”. La fuga del padre segnerà per sempre la vita tormentata di Amelia, perennemente alla ricerca di un’appartenenza mai acquisita. 
La madre Marion Cave è inglese di origine irlandese, attivista cattolica e altra figura drammatica nella vita di Amelia. Cresciuta negli ambienti della sinistra inglese, Marion dovrebbe essere a fianco del marito. Ma le sue precarie condizioni di salute le impediscono di partecipare di persona alla lotta antifascista. 
Nel 1937 il padre Carlo viene fatto uccidere, assieme al fratello Nello, per ordine di Mussolini e di Ciano. 
Fino ad allora la sua lingua madre è il francese, parlato dai genitori in famiglia, anche se con il padre Amelia parla spesso italiano. 
“Scappata in Inghilterra … [...] Giaciuta in America [...]”… nel 1940, prima dell’occupazione nazista della Francia, Amelia si trasferisce in Inghilterra con la madre e i fratelli. Poi negli Stati Uniti, dove frequenta il ginnasio e il liceo. 
Parla allora l’inglese, anche a casa. 
“[...] Vissuta in Italia [...]”… nel 1946, dopo la liberazione, torna in Italia, ma siccome non le vengono riconosciuti gli studi fatti in America, decide di lasciare il nostro Paese. 
L’italiano non è la sua lingua madre, ma qualcosa da scoprire, da imparare a diciotto anni. 
Nel “[...] paese di sofisticati [...]”… torna in Inghilterra, dove studia musica e composizione. 
Nel “[...] paese barbaro [...]”… nel 1948 si trasferisce a Firenze e alla morte della madre sceglie Roma come residenza. Qui lavora come traduttrice e consulente editoriale, e riprende gli studi di composizione, nonché teoria musicale ed etnomusicologia. 
Nel 1950 inizia un’amicizia intensa, ma breve, con lo scrittore Rocco Scotellaro. Con lui condivide interessi sociali e politici, inizia a frequentare gli ambienti letterari e il Pci. Aderisce per un breve periodo al Gruppo 63, l’ambiente dell’avanguardia degli anni Sessanta, cui però rimane estranea, troppo lontana com’è dai motivi ideologici maschili di tale avanguardia e dalle sperimentazioni esclusivamente linguistiche. 
Il grande amico Rocco morirà di lì a tre anni, giovanissimo. In quel periodo le iniziano gli esaurimenti nervosi, che la tormenteranno per tutta la vita assieme al morbo di Parkinson diagnosticatole nel 1969. 
Amelia vive a Roma dal 1948 fino all’11 febbraio 1996, quando decide di porre fine alla sua esistenza. 
“[...] Speranzosa/ nell’Ovest [...]”… o in qualche altro luogo. 
 
 
“Un tenero sonetto è tutta la forza che ho 
di creare, piena facile vita che io ho sempre e poi sempre 
di nuovo e di nuovo distrutta, ma era dio a gridare 
dentro di me spegnete tutte 
le luci! Nessun amore sia concesso a colui che 
odia ogni amore tranne la vita 
scritta su carta, là scorre il mio 
seme folle alla 
morte”. 
(Amelia Rosselli, Sleep. Poesie in inglese, Garzanti, Milano, 1992) 
 
 
Le prime poesie di Amelia risalgono al 1952, raccolte in Primi scritti 1952-1963, Guanda, Milano, 1980. 
 
 
“O were I one in Three! Just like the Holy Ghost, 
the Father and the Son, I’d reunite my scattered souls 
and string them in from all the seas abroad; 
no longer climb upon perdition’s mast 
and wave a banner crying God, at last!”. 
 
“O foss’io una in tre! Proprio come lo Spirito Santo 
il Padre e il Figlio, radunerei le mie sparse anime 
e le legherei insieme da tutti i mari dell’estero; 
non più arrampicarmi sull’albero della perdizione, 
ma sventolare una bandiera piangendo Dio, infine!”. 
 
 
Nel 1963 appaiono ventiquattro sue poesie nella rivista letteraria «Il Menabò». È il suo esordio poetico. La scoperta appartiene a Pier Paolo Pasolini e al suo talento critico. Di lui Amelia dice: “Se non ci fosse stato Pasolini, non ci sarebbe stata pubblicazione, questo è sicuro, perché gli altri tre o quattro editori non risposero”. E ancora: “[...] ho pubblicato per ragioni di opportunità e il più tardi possibile. Ho cominciato a pubblicare a trentatré anni […] Ma da giovane non mi sarei mai sognata scrittrice, anche perché non lo considero un mestiere. Sono stata educata al guadagno […] e mi sarei vergognata di chiamarmi scrittrice in quell’epoca e tuttora me ne vergogno”. 
 
La prima grande opera di Amelia è Variazioni belliche (Garzanti, Milano, 1964), con l’importante scritto Spazi metrici, saggio dal quale emerge il forte impegno anche teorico che l’autrice pone nelle sillabe e nel ritmo poetico. Proprio in questo saggio Amelia suggerisce a chi scrive poesie l’uso della macchina da scrivere piuttosto che la scrittura a mano. “Scrivendo a macchina posso per un poco seguire un pensiero forse più veloce della luce”. 
 
 
“Non da vicino ti guarderò in faccia, né da 
quella lontana piega della collina tu chiami 
la tua bruciata esperienza. Colmo di rimpianto tu 
continui a vivere, io brucio in un ardore che non 
può sorridersi […]”. 
(Amelia Rosselli, Variazioni belliche, Garzanti, Milano, 1964) 
 
 
Del 1969 è la raccolta Serie ospedaliera, col testo battuto in caratteri dattilografici, la cui prima parte è costituita dal poemetto lungo La libellula (riedito successivamente). 
 
 
“Nell’interiore di questo pacifico 
piccolo parco vedo te partire, a 
passi ancora lenti, per altro giardino 
e so che piovana attenderò che completamente 
risorta sia la tua figura dal cimitero 
delle mie penombre, i miei pensieri”. 
(Amelia Rosselli, Serie ospedaliera, il Saggiatore, Milano, 1969) 
 
 
“E il delirio mi prese di nuovo, mi trasformò 
stancata e ebete in un largo pozzo di paura, 
mi chiamò coi suoi stendardi bianchi e violenti, 
mi spinse alla porta della follia. Mi rovinò 
per quell’intera durata e quel giorno intero. 
Mi stese dispettosa a terra: incapace di muovere, 
stanca all’alba, incapace a sera: e l’agonia 
sempre più viva”. 
(Amelia Rosselli, La libellula, SE, Milano, 1985) 
 
 
Nel 1976 esce Documento (1966-1973), con la presenza più viva di eventi esterni, ma sempre messi in rapporto con il suo mondo interiore, con il suo inconscio. Una poesia furiosa, fatta di solitudine, silenzio e morte. “Mi truccai a prete della poesia ma ero morta alla vita”. 
Le poesie scartate verranno in seguito raccolte in Appunti sparsi e persi (1966-1977), Aelia Laelia, Reggio Emilia, 1983. 
 
 
“Sei nel mio petto, ma poi ti ritrovo, 
ma poi ti perdo, ma poi sei lì, e non 
vuoi addomesticare il mio sangue che 
non ha altra urgenza che di chinarsi 
sul tuo tutto indifferente corpo che 
annega mentre m’infilo nel letto”. 
(Amelia Rosselli, Documento (1966-1973), Garzanti, Milano, 1976) 
 
 
“Ma il resto tace: non odo suono 
alcuno che non sia pace 
mentre sul foglio trema la matita. 
E arrossisco anch’io, di tanta esposizione 
d’un nudo cadavere tramortito”. 
(Amelia Rosselli, Appunti sparsi e persi (1966-1977), Aelia Laelia, Reggio Emilia, 1983) 
 
 
Nel 1981 Amelia vince il Premio di poesia “Pier Paolo Pasolini” con il suo secondo poemetto dal titolo Impromptu, scritto tutto d’un fiato dopo anni di silenzio. 
 
 
“Lo spirito della terra mi muove 
per un poco; stesa o seduta guardo 
non l’orologio; lo tasto e lo 
ripongo al lato della testa, che 
non sonnecchiando ma nemmeno 
pensando, si rivolse al suo dio 
come fosse lui nelle nuvole! Rinfiacchita 
l’infanzia muraria di questi versi 
non sono altro che pittorica immaginazione 
se nel campo di grano rimango 
a lungo stesa a pensarci sopra”. 
(Amelia Rosselli, Impromptu, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova, 1981) 
 
 
Pubblicate da Garzanti nel 1992 sono le poesie in inglese Sleep
Il testo narrativo autobiografico Diario ottuso (IBN, Roma, 1990) è l’unico libro in prosa pubblicato da Amelia. 
 
Che cosa significa scrivere in versi, o più comunemente, “fare poesia”? Ad ognuno di noi la risposta. Ma leggendo e masticando poesia non si può che rimanere spiazzati di fronte ai diversi atteggiamenti degli autori, in particolare la scissione tra identità e linguaggio, manierismo del tutto estraneo alla verità di chi scrive. La poesia di Amelia Rosselli, invece, lascia interdetti per la perfetta combinazione tra il suo essere e il suo linguaggio: unico perché escludente il gergo convenzionale dei mezzi di comunicazione e degli intellettuali di professione. 
 
Accostarsi alla scrittura di Amelia non è facile, perché le sue parole allontanano chi, come la maggior parte di noi, è stato educato alla produzione letteraria tradizionale. Insomma, siamo abituati a leggere e capire subito ciò che abbiamo letto. Amelia è poeta scomodo in questo senso, perché originale ed estraneo a qualsiasi forma di comprensibilità immediata e diretta. Amelia è poeta arduo, che richiede da parte nostra impegno e volontà di comprensione assoluti. Può non piacere, certo, ma non lascia indifferenti. Se non altro per le soluzioni formali e musicali dei suoi versi, così apparentemente casuali e illogici. Eppure, ancora una volta l’apparenza inganna. Parole le sue, che sono specchio di chi le scrive, di chi le utilizza come uno specchio dell’anima. Amelia maneggia le parole come fossero organismi biologici, a comporre versi corporei, carnali, sfrontati, limpidi, deliranti, visionari. In perfetta simbiosi con il suo essere corpo e presenza incorporea, ragione e sragione, vita e morte. 
 
Alla poesia di Amelia viene spesso associata la parola “afasia”. Amelia pare infatti incapace di esprimersi con le parole e la scrittura. Lei che conosce tre lingue e il linguaggio della musica. Un paradosso, certo. Un delirio, un magma di pensieri e parole, il cui significato le incide la pelle. È nella sua epidermide, dentro la sua storia, che sta scritta la sua poesia. Ed è una poesia che serve a tenerla in vita, quasi una maschera ad ossigeno che permette momenti di intensa lucidità. Una lucidità quasi folle. Perché chi troppo vede, troppo comprende. E nel comprendere, Amelia scrive della sua solitudine e del veleno che essa trasuda. E che lei ingoia. 
 
Coerenza, innanzitutto. In Amelia la forma estetica coincide esattamente con la sua morale, con la sua quotidianità. Per Amelia il linguaggio è la poesia. E la poesia è la sua natura. Una poesia estranea alla tradizione italiana, sempre alla ricerca di un linguaggio universale nel segno della musica. Ed è proprio la competenza musicale dell’autrice a farle sentire necessaria una fonetica del testo come identità specifica e universale. Da qui una metrica originalissima, fondata sull’omogeneità ritmica e tipografica. “La lingua in cui scrivo volta a volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica associativa è certamente quella di tutti i popoli e riflettibile in tutte le lingue”. 
 
Un linguaggio aggiornato e modificato grazie alla lezione della metafisica inglese, dei surrealisti francesi, di Campana, di Montale e, per la metrica, del verso lungo alla Pavese. 
I libri, i loro autori, sono voci con cui dialogare. Nelle poesie di Amelia si possono dunque leggere le voci di Rimbaud, Mallarmé, Kafka, Pound, Montale, Saba, Campana, Antonio Porta. Ma Amelia non vive nell’ombra di qualcun altro, ritenuto maggiore. Amelia è poeta con un profondo bagaglio culturale di amori letterari, senza alcun tipo di sottomissione a modelli prestabiliti. Ne La libellula, ad esempio, utilizza versi di vari poeti come spunti, per svilupparli e manipolarli in maniera del tutto soggettiva. 
In particolare, con Kafka (sottinteso ispiratore di Variazioni belliche) la Rosselli condivide molto sul piano esistenziale: la centralità della parola, la scrittura come destino di alterità, la vocazione alla solitudine, la scelta del celibato coerente con la vocazione artistica, la cultura ebraica (la Rosselli è ebrea per parte di padre). “[...] non ci sposavamo, non facevamo figli, pur di seguire questa istintiva vocazione. Almeno questo fu nel mio caso […] nella massa di oggi che si interessa all’arte non c’è questo eroismo e, se ci sono casi singoli, sono casi rari, come lo sono sempre stati”. 
Anche nella Rosselli come in Kafka la prima persona (l’io narrante) si sposta all’improvviso alla seconda e terza persona. Anche nella Rosselli come nei Diari di Kafka s’intrecciano prosa e lirismo, confessione e ritrazione, sfogo e sperimentazione letteraria. Anche in Amelia fra poesia e prosa i confini sono liberi e aperti al rischio. 
 
Una poesia tanto estranea all’italianità, quanto ricca nella sua universalità, nelle sue contaminazioni linguistiche. Un poetare originale, fatto di imperfezioni, di macchie e cadute. Amelia, una persona non comune, anche quando cercava di non esserlo. Una vita vissuta dentro, ma al contempo altrove, come un esule che non avrà mai radici e che non ha memoria di alcuna patria. 
Per Amelia la poesia è dunque verità e storia. E la malattia ne è la genesi e la forma. Tanti sono i nemici invisibili con cui convive, personificazioni degli orrori e delle paure che abitano il mondo e la nostra vita quotidiana, dell’angoscia e del terrore per una malattia sentita come estranea, ma al tempo stesso radicata in profondità nel suo — nel nostro — essere. 
Il combattimento contro questi nemici invisibili porta Amelia a scrivere in maniera “bellica”, con violenza, astuzia, strategia e straniamenti. Nella sua poesia convergono dunque due tendenze opposte: un linguaggio urgente, naturale, barbaro (un accavallarsi di pensieri, idee e sensazioni, dove trovano largo spazio passionalità e istinto) e una disciplina formale, metrica, musicale (segno tangibile di un dominio intellettuale di sé e del mondo). È la materia del disordine che lotta dentro le pareti dell’infrangibile ordine formale. E la sua poesia non è mai compiuta, ma un continuo dire, contraddire, frantumare, riaprire il discorso. “Se io volevo fiorire, sfiorivo. Se volevo, cadevo”. 
 
Pasolini definisce la scrittura poetica di Amelia come una scrittura di “lapsus”: versi fatti di distrazioni, di una grammatica di errori nell’uso di consonanti e vocali. Il lapsus è un’illuminazione improvvisa che rivela qualcosa di inaspettato e possibile, una terra contigua e prossima a questa, un altrove inesplorato da esplorare. Il lapsus è la passione per una parola sempre più significante, apparentemente insignificante, quasi immersa nel buio, ma capace di illuminare la notte e mostrare paesaggi altri da quelli ad essa usuali. Le parole, nella poesia di Amelia, hanno un peso importante. Sono la poesia stessa. Sono il frutto di tre lingue madri, quindi frutto succoso e saporito. “La poesia è frutto di lunghi ragionamenti, di ricerche, di ideali covati a volte per anni”. 
Un trilinguismo fatto di parole cariche di memoria, di echi e ricordi, che permette un’estrema libertà d’espressione al di là del lessico usuale. Le parole usate da Amelia sono parole evocatrici che provengono da una mente misteriosa e oracolare, da una follia sempre repressa e controllata. 
 
Ma Pasolini precisa anche che il tema dei lapsus è secondario rispetto ai grandi temi della nevrosi e del mistero che percorrono il corpo delle poesie di Amelia. Nevrosi e follia, il passo è breve. Nei versi de La libellula il linguaggio di Amelia diventa delirio verbale, voce schizofrenica che si sdoppia, monologo drammatico di chi pare essere spettatore della propria follia. Da una parte la scrittrice, dall’altra l’io narrante incredulo e fittizio. Nella scrittura del delirio, la lingua si manifesta in modo inconsueto e anomalo. Nel delirio di Amelia, però. Quante e quali differenze tra la sua scrittura e quella di Alda Merini, pur se entrambe accomunate da una malattia mentale dagli esiti tanto diversi. 
Entrambe hanno conosciuto le case di cura e i manicomi. Alda per periodi lunghi e continuati, Amelia per periodi più brevi e con lunghe interruzioni. Alda comprende la sua malattia, vive appieno la sua malattia e gli altri malati che la circondano, trasferisce la sua esperienza sulla pagina scritta. Amelia, invece, non si guarda attorno, non ha alcuna considerazione dell’umanità dolente che la circonda, vuole solo fuggire dai luoghi in cui viene rinchiusa e non scrive mai apertamente dell’esperienza manicomiale. Per Alda la poesia è grido e preghiera, invocazione e gemiti di desiderio, dialogo costante tra anima e corpo, tra coscienza e delirio. Per Amelia la poesia è incertezza, approssimazione, esperienza contaminata dall’immaginazione. 
Le forme espressive della Rosselli e della Merini sono diverse perché diverso è il legame che esse hanno con la vita. Per entrambe una vita contagiata dalla follia. Ma mentre Amelia sente contro di sé il destino tragico e una condanna ineluttabile, Alda accetta la follia come una forma data alla sua esistenza, come strumento di conoscenza e scrittura. Di scrittura come conoscenza. 
Forme espressive diverse, dunque, ma entrambe figlie naturali di una mente che amplifica a dismisura i rumori e le immagini della loro vita. Delle nostre vite. 
 
“E così fu luce esatta: si convinse di aver trovato la sua dimensione vitale: il non sapere, il non vedere, il non capire”1. Come un bambino nell’estremo tentativo di difesa dal male, Amelia pare chiudere gli occhi e cercare nel buio un po’ di tepore. È l’11 febbraio 1996. 
 
Lorella De Bon 
 
 
 
 
 
1 ^ Amelia Rosselli, Diario ottuso, IBN, Roma, 1990.
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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