Una recensione 
a cura di Pietro Pancamo
 
 
 
 
 
 
 
Mykle Hansen, 
Missione in Alaska, Meridiano zero, Padova, 2011
 
 
Il sarcasmo di Mykle Hansen si tramuta in romanzo per presentarci in toni surreali e caustici il giovane Marv Pushkin; costui, simbolo innegabile del neocapitalismo dissennato e farneticante che purtroppo domina incontrastato il periodo storico in cui ci troviamo, è un manager d’assalto, abituato da sempre ad asservire ostinatamente e per intero la propria esistenza (relazioni sociali comprese) alla ricerca del successo, del danaro, del potere. Però adesso è bloccato senza scampo o giù di lì sotto il peso della sua beneamata Range Rover. E mentre un orso della tundra, cominciando dai piedi, provvede a mangiucchiarlo pian piano con zanne affilate e golose, all’intorno fischiano crudeli i venti gelidi dell’Alaska più selvaggia. Si dimostrerà in grado di tener duro, lo yuppie martoriato, e di salvare una percentuale, almeno decorosa, del suo corpo sbocconcellato? In altre parole, i soccorsi riusciranno ad arrivare in tempo? Saranno ovviamente i lettori a scoprirlo. Io invece mi limiterò semplicemente a notare quanto segue: forse non è una mera coincidenza che il cognome di un simile poveraccio, ormai alle prese con una morte progressiva per sbranamento, ricordi tanto da vicino quello di Aleksandr Sergeevi, il grande scrittore russo autore di numerose opere e per giunta di un romanzo in versi indubbiamente epocale, il cui protagonista indiscusso (tale Evgenij Onegin) è sul serio — a immagine e somiglianza di Marv, guarda caso — un giovane egocentrico e ricco, gravemente affetto da una forma pronunciata d’immaturità e dunque da un’irresponsabile inclinazione all’autoindulgenza. 
Ma i punti di contatto fra il cognome del malcapitato dirigente carrierista, assediato in Alaska da fauci fameliche, e la produzione letteraria dell’illustre russo menzionato più sopra, di sicuro non finiscono qui: perché bisogna anche considerare che al ritratto del rapporto idillico che lega, ne Gli zingari di Puškin, le popolazioni nomadi della Bessarabia all’ecosistema che le ospita, sembra quasi voler fare da parodistico controcanto proprio quel ridicolo processo d’immedesimazione nella “way of life” degli orsi, al quale il nostro manager rampante — nonostante l’odio dichiarato che nutre per ogni paesaggio e la natura in genere — non sa sfuggire al termine delle sue disavventure. Tutte così traumatiche e grottesche da avergli stipato nel cervello — spalleggiate probabilmente da un eccesso di psicofarmaci — un guazzabuglio convulso di goffa e patetica demenza. 
 
Pietro Pancamo
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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