Una recensione 
a cura di Ninnj Di Stefano Busà
 
 
 
 
 
 
 
 
Dante Maffia, Sbarco clandestino
Edizioni Tracce, Pescara, 2011
 
 
Un tema di grande attualità, una problematica che trova ostracismi e contraddizioni in termini, mentre si delinea l’umiliante vetrina di un mondo spaurito, allarmato davanti a fenomeni di così profondi mutamenti etnici, apocalittici, vere trasmigrazioni di popoli, e di così imponenti investiture morali, sociali, politiche. 
Un mondo, quello di oggi, sprovveduto e disorientato dinanzi a fattori ontologici che, proprio per l’essere grandemente vasti, trovano incerta e perplessa, nettamente contrariata e incapace l’opinione pubblica, i governi in un contesto di umanità reproba e inerte, inadatti ad opporvisi, a registrare il fenomeno e regolarlo nella giusta dimensione, disorientati e quindi spiazzati a padroneggiare il destino di molti... 
E infine, larghe sacche di oppositori ad oltranza che volutamente ignorano o lasciano trasparire repulsione con atti di miseria morale e intolleranza razziale, tali da innescare un processo di dissociazione intellettuale fatalistica e discriminatoria. 
Volutamente inconciliabile si mostra la desolazione alla domanda di aiuti umanitari che da questi fenomeni si origina... 
La poesia di Dante Maffia va a toccare i nervi scoperti e dolorosi di uno scoperchiamento di pensieri e di azioni, di travisamenti e soprattutto di fatalismo che ingenera una catastrofica forzatura delle regole, una condotta maldestra, un’opposizione omologante e inquietante per quelle genti (una moltitudine vagante), private del diritto d’asilo, svilite da sospensioni di libertà, dissociazioni d’identità, oppressioni e frustrazioni nei diritti umani e civili, defraudate e umiliate. 
Lo spettro della miseria morale di coloro (i cristiani civilizzati) che dovrebbero sostenerli si fa in molti casi segno inquietante di una deprivazione di coscienza, che appare non salda, non matura e annaspa nell’ondivaga emergenza di un piano tempestivo di aiuti, tentando di sottrarsi alla propria responsabilità, come di ricusare quei paradigmi di accoglienza e di indulgenza nei confronti del “diverso”. 
«Diverso da chi?», si dovrebbe poi obiettare; ma è l’umanità stessa che dinanzi allo strazio primordiale, quanto universale, della diaspora così massiccia, arretra nella sua posizione di deserto arido e informe. 
Il massimo della solidarietà intellettuale va dunque rivolto a questo poeta integerrimo che dalla sua vocazione di immaginario collettivo, sa estrapolare commoventi e limpide suggestioni, emozioni che costituiscono stimolo per molte e più proficue riflessioni. 
La diaspora è stata da sempre considerata un filone parallelo alla morte dei diritti umani, qualcosa che disorienta e coglie impreparato il fatalismo storico dell’intera umanità. 
Siamo portatori sani di “nequizie”, il male si aggrava e diventa pandemia quando a condannare gli infelici è l’ottusa ipocrisia, il collasso della solidarietà nel non voler accettare e considerare la “via crucis” di questi diseredati, umiliati e offesi in una visione cosmogonica, che si manifesta in toni edonistici, quasi dissacratori e sempre impotenti in prossimità di eventi e avvenimenti di portata biblica che disorientano l’altro, il “diverso”, l’esiliato dal pianeta, l’afflitto, il “senzavolto”, il diseredato, l’escluso. Non dovremmo dimenticare che anch’essi sono fratelli in Cristo, ma l’universo mobile, cangiante, variegato di un disincanto e di una spregiudicatezza collettivi, li fa apparire transeunti della storia, virgole precarie di un dato storico irreversibile, “circostanze circostanziali”: li definirei, per antonomasia, non uomini e donne, ma solo depositari di sventura. 
È difficile, se non impossibile, trovare un poeta che rappresenti così bene il travaglio degli sventurati musulmani succubi di lotte tribali per l’ascesa al potere di governanti-boia, in balìa di dittatori-terroristi, sanguinari che esercitano i loro poteri totalitari e senza regole su popoli indifesi; siano essi etiopi o siriani, arabi o algerini, magrebini o marocchini ecc., sono sempre i perseguitati a subire le angherie dell’esilio, la mano devastante e inquietante della fame, della sete, ad addentrarsi in clandestinità, a rivendicare diritti negati, identità perdute in una necessità impellente portata a scegliere tra sopravvivenza ai limiti dell’indecenza o morte. 
Dante Maffia è un veterano di tematiche che altri respingono, fa spesso sue le problematiche delle minoranze senza voce, degli esclusi dalla storia dell’esistenza, quasi ectoplasmi. A questi esseri umani egli presta la sua voce e ascolta il loro tormento. 
Il suo cuore di poeta traboccante di pietà si muove a compassione per uomini come Mahmud, Omar, Alì, Mamadou, Brahim, Kaddour. Vi sono alcuni brani di questa raccolta che commuovono per l’intensità degli episodi descritti: “Sono un fiato di vento/” — mormora Gada, ad esempio — “e vago nell’indifferenza,/ vado verso terre sconosciute/ dove troverò una radura dolce/ in cui riposarmi?”; e poi aggiunge: “adesso non puoi ascoltarmi, langui/ in tristi luoghi comuni dell’Occidente/ che credi tu sia solo rabbia e vuoto/. Io invece so che verrà l’aurora/ a ridarmi l’azzurro del deserto,/ la sconfinata libertà di Dio/ che ha la tua voce e il tuo passo [...]”. Khadouj invece racconta: “Nomade, straniera, mendicante,/ che importa. Ormai sono un rifiuto/ che vaga senza meta/ [...] Non potevo restare/ nella casa dove ogni cosa è sfiorita./ Sono ferita in ogni poro, la morte/ mi tiene lontano da sé per non essere infettata [...]”. 
Maffia redige le storie di ognuno registra le loro pene, il tremore dei loro turbamenti, le paure, le angosce, che prolificano da uno sfilacciamento di mente e corpo che subisce traumi di dissociazione inimmaginabili, avverte gli urli dei loro cuori trafitti, delle trasmigrazioni respinte, dove la ricerca di pace e di perdono si trova distante anni luce da essi, piccoli mucchietti di stracci sporchi, maleodoranti, in balìa di correnti impetuose, in preda a deliri di deprivazione e di malessere, di malattie, denutrizioni. 
Dante Maffia coglie appieno l’allarme per questi derelitti, si fa “testimonial” di un dolore rappreso tra la sorte e la morte, ne fa una questione di principi e di orfica desolazione; epigrafiche suonano le parole di Driss: “Ci dicono che siamo sbarcati in Calabria Saudita! Il destino è perverso, beati i morti in mare!”. 
Vi è da un lato la miopia che confuta e procede a tentoni, non indulge e non dialoga: l’Europa “ditta”; dall’altra la moratoria umana, l’esigenza di una remora morale di universalità. Quella dei nostri giorni è una diaspora epocale, senza precedenti che antropologicamente ci costringe a prendere atto di un processo umano che s’interseca, ci obbliga a meditare sull’“altro”: brutto, nero e cattivo che ci mette davanti allo specchio concavo di noi stessi, riflettendo quello che non vogliamo vedere. Ma il binocolo ha due lenti: si tratta di stabilire una corrispondenza di immagini adeguate, di coordinare regole di accoglienza, attingere al patrimonio genetico della razza umana, per estrapolare quel minimo di convergenza che d’improvviso diventi dialogo, vita, estrema salvezza per tanti diversi da noi (gli “altri”); lo scopo è guardare in fondo alle cose, prefiggersi un imperativo categorico che dell’emergenza-necessità deve fare virtù, per costituire l’obiettivo fondamentale di un mondo migliore, una confutazione di orgoglio senza pregiudizi, una coesione che sia in linea con la “pietas” e restituisca credibilità e uguaglianza al pianeta così fortemente attraversato da sventure. C’è l’auspicio che si compia il miracolo che faccia dire (come a Orhan): “Sarò trattato prima o poi/ come una persona che possiede/ un nome e l’anima?”. 
 
Ninnj Di Stefano Busà
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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