Docente di sociologia del lavoro e dell’industria all’Università di Milano, nonché ricercatore del Cnr, il professor Aldo Marchetti ci offrirà in quest’apposito spazio tematico una serie d’interventi e contributi che rifletteranno criticamente sulle maggiori questioni sociali della nostra concreta realtà quotidiana, prendendo costantemente lo spunto da importanti saggi o libri di socioantropologia ma, soprattutto, dai grandi accadimenti storici (quando non dai fatti di cronaca, più stringenti e cruciali).
|
I
In una delle opere che hanno posto le fondamenta della sociologia europea (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo) Max Weber, nei primi anni del secolo da poco trascorso, si poneva il problema della genesi del moderno capitalismo occidentale diverso da ogni altra formazione economica precedente o da altre civiltà, estranee al mondo europeo o nordamericano. Per essere più precisi si chiedeva quali fossero le sorgenti di quella particolare mentalità che vedeva nel profitto economico uno scopo in sé e per sé degno di essere perseguito. La risposta che l’insigne sociologo ha dato al suo quesito è nota. Esse andavano rintracciate nella storia religiosa dell’Europa e in particolare nella riforma protestante con la sua dottrina della predestinazione. Impossibilitato a raggiungere il Paradiso attraverso le opere di misericordia, incapace di comprendere quale sarebbe stato il suo destino ultramondano (già segnato da sempre, però, nella mente di Dio) e in preda all’angoscia esistenziale, il cristiano riformato avrebbe cominciato a cercare nel successo dell’attività economica e professionale quei segni esteriori che gli avrebbero permesso di riconoscersi tra le schiere degli eletti, in contrasto con le masse consegnate alle pene dell’Inferno. Il successivo processo di laicizzazione della società avrebbe a poco a poco dissociato la convinzione religiosa dal comportamento pratico e la tendenza a ricercare il profitto sarebbe rimasta da sola come valore sociale dominante.
Ma Weber non si fermò a tali deduzioni (in questa sede ridotte ovviamente ad una pillola). Infatti se il capitalismo occidentale era davvero unico in questa dipendenza da una particolare esperienza religiosa, bisognava trovare una controprova nell’analisi delle altre tradizioni religiose e scoprire perché quelle non avevano permesso di conseguire analoghi risultati per lo sviluppo di una moderna economia. Il frutto di queste riflessioni è consistito in una monumentale opera dedicata alla sociologia delle religioni nella quale egli concludeva (anche in questo caso si tratta di una eroica sintesi) che le religioni asiatiche (il confucianesimo, l’induismo, il buddismo e i loro derivati) non avevano sollecitato lo spirito d’impresa, rivolgendosi più alla collettività che all’individuo e collaborando più alla conservazione del sistema sociale tradizionale che proponendone il mutamento.
Forse Weber non ne aveva l’intenzione, ma le sue riflessioni finirono col confermare e rafforzare una convinzione di distinzione e superiorità che l’Occidente da secoli era andato coltivando. La razionalità strumentale, il saper fare imprenditoriale, il calcolo economico, lo spirito scientifico e la logica formale erano patrimonio unico e indivisibile della cultura occidentale. Agli altri il sordo legame con il passato, il sentimento, la magia, lo stupore di fronte alla natura e l’innocenza del buon selvaggio.
II
A dire il vero, nei decenni trascorsi, di fronte alla rapida ascesa del capitalismo giapponese, qualcuno ha cominciato a chiedersi quale sintonia ci potesse essere tra le teorie weberiane e un fenomeno di imprevista e prorompente crescita industriale in un Paese di matrice religiosa scintoista. Si parlò all’inizio di eccezione che confermava la regola, poi di fenomeno d’imitazione, alla fine si cercarono dentro la tradizione religiosa di quel Paese similitudini col protestantesimo occidentale. Insomma dal momento che il Giappone fu introdotto nel campo di analisi, si cercò di capire quali analogie presentava con l’Europa e contemporaneamente anche quali erano le differenze rispetto agli altri Paesi orientali esclusi dallo sviluppo economico di tipo industriale. Ma poi le eccezioni si moltiplicarono (la Corea del Sud, Taiwan, Singapore, la Thailandia) sino a che finirono col non essere più tali quando cominciarono a comprendere l’India e la Cina, cioè proprio quei Paesi le cui culture religiose apparivano opposte rispetto allo spirito calvinista evocato a suo tempo da Weber. A quel punto l’intera impalcatura teorica della sociologia occidentale con la sua rivendicazione di unicità non stava più sulle sue fondamenta.
Un importante libro del grande sociologo e antropologo inglese Jack Goody ha cercato di recente di affrontare l’intera tematica da un diverso angolo visuale proponendo una interpretazione davvero interessante che avrebbe dovuto suscitare molta più curiosità di quanto non abbia fatto (Jack Goody, L’Oriente in Occidente, il Mulino, Bologna, 1999). L’ipotesi di Goody è che le tradizioni religiose abbiano poco a che vedere con lo sviluppo delle moderne economie industriali, che la scienza e la tecnica si siano sviluppate in Oriente nella stessa misura che in Occidente ed anzi, almeno per un periodo, molto di più (come del resto si sapeva da tempo), che elementi di capitalismo razionalmente esercitato vi siano stati sia in Cina che in India prima dello sviluppo dell’industria occidentale (e su questo egli porta numerose testimonianze). Se l’Occidente, per un certo periodo della storia, si è imposto sul resto del mondo le ragioni vanno cercate altrove: nel suo spirito di conquista, nella sua brama di potere, nella sua efficienza militare. Ma ciò che è più interessante è che Goody propone una scansione temporale di lungo periodo rispetto alla quale riconsiderare l’intera materia. Per un periodo che va dall’Età del bronzo alla fine del Medioevo la supremazia scientifico-economica sarebbe appartenuta all’Oriente, poi sarebbe passata per alcuni secoli in Occidente e attualmente starebbe per spostarsi nuovamente verso i Paesi del sole nascente secondo un moto pendolare di lunga durata.
Mi pare che si possa concludere provvisoriamente così. Ciò che oggi l’Oriente ci dice è che uno dei presupposti culturali sui quali si imperniava da secoli la certezza della superiorità occidentale («Siamo gli unici capaci di fare impresa, di creare profitto, di organizzare razionalmente») è del tutto infondato. La base del nostro orgoglio, colmo di razionalità (questo va detto, anche se chi scrive non ama la civilizzazione industriale in molte delle sue manifestazioni), scricchiola in parecchie giunture: ecco forse il pungolo che spinge tante anime sante a cercare di instaurare diversi terreni di scontro («Magari non siamo più i primi in fatto di economia però siamo i primi in campo militare, nella democrazia, nella religione, nella morale»). Se la pacata ragione non dovesse prevalere il cammino verso il ridimensionamento delle pretese di egemonia dell’Occidente sarà estremamente difficile e costellato di conflitti.
***
POSCRITTO - La Cina è ormai la terza potenza industriale dopo gli Stati Uniti e il Giappone. E se le cose vanno avanti così (ma, beninteso, non è affatto detto) è possibile che superi anche gli Stati Uniti. Ma a ben vedere nemmeno questo è il lato più interessante della vicenda. L’estrema, impensabile ironia è che la moderna civiltà industriale cinese scaturisce, quasi d’incanto, da un regime socialista i cui fondamenti, sino a trenta anni fa, poggiavano su una dottrina rurale e misera come il maoismo. Tutto ciò appare incredibile. Mai, forse, come ora, la Storia (sì proprio quella con la esse maiuscola, benché ormai non siano molti a credere che esista ancora) ci ha giocato uno scherzo simile.
È probabile che io abbia esagerato nelle ultime frasi: forse la Cina aveva una base industriale già prima, forse il maoismo non era solo una ideologia contadina, forse l’antica tradizione di uno stato burocratizzato e centralizzato ha avuto la sua parte, ma molti misteri restano e soprattutto uno. Come è potuto avvenire che la stessa generazione di cinesi alla fine degli anni Sessanta abbia promosso la rivoluzione culturale e dieci anni dopo abbia dato avvio alla più rapida e vasta rivoluzione industriale dopo quella inglese della fine del Diciottesimo secolo? Come è potuto avvenire che le guardie rosse di Mao, diventate maggiorenni, siano state le protagoniste di un simile cambiamento? Che cosa è avvenuto nella testa di milioni di giovani cinesi in quei dieci anni tra il 1970 e il 1980? Vorrei essere uno storico e vorrei avere tempo e risorse tali da permettermi di indagare questo problema: mi pare davvero che sia uno dei misteri più affascinanti della nostra epoca.
Aldo Marchetti
|
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
È vietato l’uso commerciale e la rimozione delle informazioni di Copyright
![]() |