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Il sentiero 
“della memoria e delle radici”
“Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. A ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente”. 
 
(Simone Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Mondadori, Milano, 1996, traduzione di F. Fortini)
 
 
Carlo 
-Un racconto di Pierluigi Ambrosini (3ª puntata)-
III 
Le mie giornate cambiarono. Avevo accantonato giardino e teleferica, astronavi e aerei. Re dei pirati, avevo prosciugato il mio mare e scacciato gli alligatori. Salutavo persino persone, e me ne accorgevo dal loro stupore, che finora avevo ostentatamente finto di non vedere, o peggio... Vivevo accanto a Carlo e conoscevo giorni indicibili. Io che mi ero sempre vantato di non avere amici, neanche quello, pressoché doveroso, del cuore! 
Gli parlavo, innanzitutto. Continuamente ed ininterrottamente. Docile, Carlo mi ascoltava. Quando m’interrompevo girava il suo volto verso di me per invitarmi a proseguire. 
Si riconosceva nel nome che gli avevo consegnato, credo ne andasse fiero. Sono consapevole della mia affermazione. Cercavo anch’io di non credere a quanto vedevo, di non scordarmi che Carlo non era né un cane né un gatto od uno di quegli pseudoanimali che s’infiltrano nelle case, spesso mi pizzicavo le guance quasi temessi di destarmi da un bellissimo sogno. 
Un giorno ero rincasato piangendo ed imprecando per un brutto voto che mi suonava “grandissima” ingiustizia, e già — ridiventato quello dei tempi passati — stavo progettando il modo più efficace per farla pagare a quel mascalzone di un professore. Ero indeciso se sgonfiargli le gomme dell’auto o se rompergli i vetri di casa o, perché no?, compiere entrambi gli atti di giustizia. 
L’avevo detto a Carlo che era corso a sedersi sulle mie ginocchia, sostituendosi alle apprensive carezze della mamma, anche lei lì accanto. 
Avevo spiegato quanto mi era accaduto e avevo concluso: «Ce l’ha a morte con me, il mascalzone». Quasi non fosse bastato, avevo aggiunto, con una notevole intonazione drammatica: «Ho le prove che mi odia». 
Mentre la mamma mi rimproverava per le brutte parole pronunciate, notai Carlo che mi strizzava l’occhio in segno di complicità. 
Lontano dalla mamma gli spiegai come intendevo agire. Purtroppo la notte mi portò saggezza (o stoltezza) e rinunciai a fare coriandoli della vettura del prof. Non rinunciai però a guardarlo in cagnesco per un paio di mesi ed a rispondergli sgarbatamente quando mi rivolgeva la parola. 
Carlo mi teneva compagnia nel misero tempo che dedicavo allo studio, ma quando aprivo il libro di matematica scompariva. Evidentemente la materia gli piaceva ancor meno di quanto non entusiasmasse me. 
Giacché non sporcava se non sul balcone e al posto assegnatogli, ed era un esempio di pulizia, enumerando sussiegoso i suoi ed i miei nuovi meriti, avevo ottenuto dal papà, e successivamente dalla mamma, l’autorizzazione a lasciarlo girare per casa. Faticai più di Ercole, ci riuscii perché seppi sfruttare al meglio le mie doti oratorie. Carlo non ne approfittava, preferiva il balcone, o la mia stanza quando anch’io ero presente. 
«Quasi possedesse un orologio che nasconde nel pelo, quando stai per tornare da scuola si piazza davanti alla porta d’ingresso. Ti anticipa di due o di tre minuti, non sbaglia mai, è un portento». 
La mamma me lo aveva riferito con una punta di malcelato orgoglio, quasi per un attimo si fosse scordata del pedigree del mio amico. Nonostante le loro parole burbere, lei ed il babbo si erano affezionati a Carlo, ma Carlo la sua predilezione la riservava tutta a me. 
Vorrei, ora, descriverlo, ritrarre Carlo così com’era, non limitarmi a definirlo insolito od una eccezione della sua specie. Eppure queste parole faticherebbero, unite fra loro, a darsi un senso che appaia compiuto. Preferisco allora procedere ripetendo quello che io ero stato: ero stato il terrore della stazione. Per rendere maggiormente plausibile la mia affermazione, preciso che, come superavo la vetrata d’ingresso, un ferroviere si poneva alle mie calcagna. Walter, questo era il nome dell’incaricato, ottemperava all’ordine impartito da mio padre da quando, impadronitomi dell’altoparlante, avevo soppresso la partenza di un treno e modificato il percorso di un secondo. O, scambiate le targhe dei bagni, avevo spedito i maschi in quelli femminili, e viceversa, con mie grandi risate e ridicole minacce di denuncia da parte di un paio di viaggiatori. 
Fingevo di non accorgermi di avere Walter alle spalle, confesso che ne andavo orgoglioso, consideravo questo poveretto non uno spione ma una guardia del corpo, di quelle che proteggono i pezzi grossi. Questa simpatia per Walter — un addetto alle pulizie dei vagoni — non m’impediva di tirarlo scemo. Con lui alle calcagna m’infilavo in angoli impossibili per un adulto, e quello sudando, sbuffando (e probabilmente imprecando) cercava di non perdermi di vista. Se si fosse presentato davanti a mio padre, al signor capostazione, avvertendolo che aveva smarrito il figliolo, che cosa non si sarebbe sentito dire?... 
A Carlo avevo raccontato, ingigantendone i particolari, queste ed altre imprese che avevo taciuto anche alla mamma perché, nonno o non nonno… Ma a Carlo, no, lui di uno scherzetto tirato al reverendo curato aveva riso, la mamma se appena le avessi accennato della tonaca che avevo nascosto al suo prete prediletto avrebbe tirato in piedi una tragedia. Altro che peccato mortale! Il curato poi, con quel suo viso da finto santo, mi avrebbe imposto di espiare con trecento rosari e con una messa quotidiana per sei mesi… 
E tanto più fui “il terrore della stazione e dintorni”, tanto maggiore fu il merito della mia metamorfosi che spettò tutto a Carlo. 
Se a qualcuno potrà apparire più rassicurante, definirò questo castoro un trastullo, un compagno di giochi, una sorta di animale domestico, eppure non esprimerei che una prolungata menzogna. Lui non era un compagno, un amico, un animale appartenente alla famiglia dei roditori. Per me era un fratello e da fratello si comportava. 
Mi permetto di elencarne i pregi: 
 
era saggio
 
non eccedeva nel cibo
 
era prudente
 
era metodico; terminato il pranzo si concedeva un riposino di una ventina di minuti. 
Anche se gli era pesante sopportare il chiuso delle stanze, dopo cena non si allontanava ma mi teneva compagnia finché non mi fossi addormentato. Allora scendeva dal balcone più abile di un ragno delle Dolomiti e se ne andava a spasso nella notte. Ritornava con la prima luce del mattino. Ero sveglissimo, naturalmente, eppure mi fingevo in un mondo dove le scuole non inghiottono i bambini. Lontano dal sospettare il mio trucco, si accovacciava in fondo al letto ed attendeva paziente il mio... “risveglio”. Carlo valeva proprio tutta la mia affezione, la mia trasformazione! 
 
Una di quelle mattine il sonno fu più forte della mia volontà, aprii gli occhi quando era ormai giunta l’ora della scuola e neanche per mezzo minuto avrei potuto indugiare sotto le coperte come mi piaceva da matti. 
Carlo non c’era. Fissai a lungo l’orologio anche se la luce ed i rumori mi confermavano l’esattezza dell’ora indicata. Finsi di giustificare l’assenza di Carlo con un contrattempo, ma già temevo il peggio. 
Mi misi in piedi ed eseguii il rituale che era misero destino di sei mattine di ogni settimana. Mi lavai le mani, mezzo volto, i denti. Mi vestii. Mi pettinai con la riga. Sistemai la cartella che non predisponevo alla sera perché lo ritenevo tempo sprecato casomai durante la notte mi fossero venute due simpaticissime lineette di febbre. Ero un figlio alquanto disubbidiente, e col Natale (periodo di folli promesse) ormai alle spalle, quello della mamma era fiato sprecato; la poverina non ignorava quanto poco assecondassi i suoi suggerimenti, me lo chiedeva più per abitudine, ed io le rispondevo mentendo senza vergogna. 
Quella mattina avevo compiuto ogni movimento evitando di proposito di guardare verso la finestra. Tanto, mi ero ripetuto, l’avrei sentito arrivare… 
C’era però una domanda che avevo evitato di pormi, e cioè se non se ne fosse andato perché stanco di me e della vita che gl’imponevo. Gli era accaduto qualcosa che doveva essere molto più di un contrattempo: di sua volontà Carlo non avrebbe tardato; neppure mi avrebbe tradito (eravamo amici, grandi amici… ). 
«Mantieni la calma, non preoccuparti» — la mamma mi aveva letto in viso, neppure avevo avuto bisogno di spiegarglielo — «Tornerà». 
Erano cerchi nell’acqua le sue parole ed io non le intendevo, non potevo intenderle; mi arrovellavo, supponevo, pensavo. Al diavolo la supercolazione che la mamma mi aveva preparato: mi ero precipitato in giardino, avevo cercato Carlo ovunque, avevo percorso più volte la nostra strada e quelle vicine, l’avevo invocato. La mamma mi aveva seguito ed aveva ripetuto i miei gesti e le mie parole. Fiato e tempo sprecati. La più totale disperazione si era impadronita di me. Lo vedevo travolto dalle ruote di un camion, abbattuto dal fucile di un malvagio… 
Anche mio padre era accorso, non so da chi l’avesse appreso. 
«Il tuo Carlo mi è simpatico» — ufficialmente si era sempre rifiutato di ammetterlo — «In fondo è meglio lui di un barbosissimo gatto che dorme notte e giorno sulla poltrona e la riempie dei suoi peli puzzolenti». Rifacendosi serio: «Tranquillizzati, figliolo, ti do la mia parola che lo troveremo. Non appena in stazione, incarico Walter di prendere due ferrovieri e di mettere a soqquadro ogni luogo». 
«È inutile che perdiate tempo a cercarlo tra i binari, Carlo non ce l’ho mai portato, Walter può confermartelo. Cercatelo in giardino, nell’orto… Anche in solaio, una volta glielo mostrai e ricordo che gli era piaciuto… Vengo con te, papà, lasciami partecipare alle ricerche… ». 
«Bastiamo noi». 
«Ma papà, conosco dei posti che… ». 
«No. A scuola ti distrarrai e l’attesa ti sembrerà meno pesante». 
Bella roba! 
Bloccato là dentro che cosa non avrei dato per rendere meno immobili le ore. Gl’insegnanti spiegavano e interrogavano, blateravano e spaventavano, di loro mi facevo non uno ma due baffi. Un compagno con il quale sfogarmi (una sorta d’amico) avrei dovuto inventarlo lì per lì. Solo la mia mamma, la mia buona e brava mammina, sentivo vicina. Non c’era stato bisogno che glielo chiedessi, come non sarebbe corsa ad avvertirmi se Carlo fosse tornato? Lei, in più, possedeva la preghiera: e mentre preparava il pranzo, e mentre si affaccendava per la casa... 
Quella mattina furono innumerevoli le apparizioni dei bidelli nella classe, sembrava si fossero dati appuntamento, ma non c’era mai lei dietro la porta che veniva aperta, non il premurosissimo e delicatissimo sorriso della mamma a ridarmi la vita, o quello di mio padre, o di Walter... 
Quando suonò il campanello liberatorio, non ebbi bisogno di volare a casa per il tragitto più veloce che avevo studiato per cinque ore calcolando i semafori, le auto, la calca della gente in giro solo per rompere le scatole: la mia mamma si trovava in fondo alla breve rampa di scale della scuola, e bastarono le sue braccia sconsolatamente aperte per togliermi l’attimo di un’impossibile felicità. Anche il papà le era accanto, teneva lo sguardo a terra, mortificato. 
«Per pranzo ti ho cucinato le patatine fritte con l’arrosto di vitello (freddo)». 
Erano l’unica verdura e l’unica forma di carne per le quali andassi matto. La mia mammina sapeva di essersi affannata per niente, suo figlio non avrebbe ingoiato neanche mezzo boccone. 
Lei ed il babbo cercavano di distrarmi, di parlarmi degli argomenti che erano sempre stati in cima ai miei interessi, ma del campionato di calcio e dell’Atalanta, del Giro d’Italia e di Gimondi, dei fumetti con le avventure di Bufalo Bill non me ne fregava più niente. Mai avevo sentito i miei tanto comprensivi e generosi, veri angeli. Cercare un difetto alla mamma era come cercare l’ago nel pagliaio; il papà quel giorno e nei successivi restò più in casa che in stazione, trascurando quanto per lui era più della vita. Entrambi mi spronavano a dedicarmi persino alla teleferica ed alle mie peggiori abitudini. 
Ma io ero disperato. 
Certamente sollecitate dalla mamma, giungevano processioni di compagni che vedevano nel mio giardino l’Eden. Davanti ai miei occhi invece si mostravano la sua casetta vuota, le sue verdure preferite intatte e la sua vaschetta stracolma d’acqua. Non lui. Lui, il mio primo ed unico amico. Come avrei potuto prestare interesse alle cazzate dei miei compagni? A quale svago avrei potuto dedicarmi per dimenticarlo per cinque minuti? Me la prendevo con Gesù, con la sfortuna, con il mondo intero, tutti erano colpevoli della scomparsa del mio Carlo. 
Venni aiutato. Una di quelle mattine mi destai di soprassalto con la certezza del passaggio di Carlo nella camera. Non per merito di un sesto senso o delle Ave che avevo rivolto alla Madonna, infilate tra imprecazioni e parolacce, avevo avvertito il profumo di Carlo. Con lo sguardo corsi alla bacinella e ne ebbi la conferma, l’acqua era diminuita. Carlo non c’era però. Lo chiamai; lo cercai per le stanze ed in giardino, in pigiama, con le pantofole ai piedi incurante del freddo davvero sostenuto. Ma senza affannarmi. Mi bastava. Se anche Carlo era di nuovo scomparso adesso avevo la certezza che non era morto. Il mio più grande e taciuto timore debellato. Non dalla follia di un automobilista, non dalla perversione di un malvagio il mio amico era stato tenuto lontano, ma... ? 
Ne tacqui con i miei, lo preferii. Notandomi di buon umore e con un appetito che intendeva recuperare i giorni perduti, i loro sospiri di sollievo ed il loro buon senso mi evitarono una spiegazione che non mi sarebbe stata possibile neanche ricorrendo al mio metodo infallibile, che consisteva nel rispondere senza tralasciare nulla, anzi, riferendo anche i particolari, ovviamente dopo averli… aggiustati a modo mio. 
Bell’amico, però! Se ne era tornato senza manco un saluto, ma lasciando segni inequivocabili della sua presenza. Perché? Da che cosa o da chi era indotto a comportarsi in una maniera tanto crudele? Conoscendo poi quanto bene gli volevo... All’indicibile felicità di saperlo vivo, al punto che mi ero precipitato in chiesa ad accendere una candela alla Madonnina per la grazia ricevuta dimezzando i miseri risparmi, si era sostituito il dubbio scaturito da quegl’interrogativi. Quando riuscii a calmarmi un poco ed a ragionare, conclusi che Carlo non mi aveva abbandonato per assecondare i propri comodi: qualcosa doveva essere accaduto. Una volta tornato me lo avrebbe spiegato: la sua sarebbe stata sicuramente una spiegazione di piena soddisfazione. 
Avevo ripreso ad intendere le parole degl’insegnanti. Tutte, o quasi… A sorridere ai compagni. Ad interessarmi della teleferica. L’avrei mostrata a Carlo in perfetta efficienza; avevo in mente di proporgli di scendere sostituendosi al carico: si sarebbe divertito e distratto, se il suo fosse stato un problema di noia. Mi ero anche dedicato a ripulire il giardino dalle erbacce, con la medesima pignoleria che la mamma rivolgeva ai pavimenti. Ogni mia azione ed ogni mio pensiero erano tesi al giorno scelto da Carlo per ritornare. 
Il suo “gioco” mi era sempre più incomprensibile. Mentre dormivo, veniva, si dissetava, si riposava ma aveva cura di andarsene prima che mi svegliassi. Se il saperlo vivo mi aveva restituito la voglia di vivere, anche scervellandomi proprio non comprendevo il motivo — perché un motivo doveva pur esservi — del suo comportamento. Talvolta m’incavolavo e affermavo che, se in quel momento l’avessi avuto tra le mani… 
La mia mammina sapeva che mai e poi mai avrei torto un pelo a Carlo, eppure si arrabbiava quando affermavo di odiarlo, diceva che commettevo un peccato grave: e dàgli!... 
Si era anche “fissata”, la mia mammina, di migliorare la mia memoria e la mia concentrazione scolastica con una cura a base di carote. Salvo poi non accorgersi, lei madre tanto premurosa quanto meticolosa, delle continue sparizioni di quell’ortaggio. Aveva anche acconsentito a non togliere dal balcone le cose personali di Carlo. Era stato il papà a toccare l’argomento: «Quando le carrozze di un treno non vengono utilizzate, è necessario spostarle su un binario morto in attesa di una loro futura collocazione» — aveva illustrato con il linguaggio che gli era abituale quando intendeva dare importanza alle parole — «Ma, per una volta, ritengo che si possa compiere una eccezione... ». 
Un unico appunto, già che mi trovo in argomento, debbo muovere ai miei insostituibili genitori: si erano sempre rifiutati di considerarlo come un figlio, lo chiamavano Carlo, due o tre volte si erano arrischiati a dargli un buffetto, ma per loro era e rimaneva un animale. Alquanto intelligente, molto intelligente, insolitamente intelligente, indiscutibilmente intelligente, ma pur sempre un animale appartenente alla famiglia dei roditori. 
Poi decisi di rompere gl’indugi e gli tesi un agguato. 
Vi avevo meditato a lungo, non ero certo un adolescente che avrebbe lasciato una decisione tanto importante all’improvvisazione. Avrei riposato nel pomeriggio, cosa da me sempre rifiutata e reputata una sorta d’affronto le volte che la mamma si era permessa di propormela; purtroppo mi era necessario per rimanere sveglio durante la notte e… beccarlo. Alla mamma, senza guardarla negli occhi, avevo accennato ad un poco di emicrania. Non doveva avervi dato molto credito se non era corsa a toccarmi la fronte, a chiedermi quali altri sintomi avvertissi, se in classe non avessi bisticciato, se per caso il prof. di matematica non mi avesse torchiato... 
Dopo cena predisposi l’acqua, il cibo, la luce, le tapparelle; nel letto collocai un manichino con tanto di parrucca che mi aveva prestato l’unica femmina della classe che avevo ritenuto seminormale. Infine mi ero accovacciato sul pavimento, nascosto dalla scrivania. 
Carlo giunse quando la notte era molto avanti ed anche i vagabondi iniziano a prendere in considerazione il tepore del lettuccio. Non io, io ero ancora ben sveglio! 
«Carlo, non mi vedi? Sono qui». Mi guardò, neanche sorpreso. «Se è questo che hai scelto non te lo impedisco, torna ogni notte, a me basterà». 
Non aggiunsi altro, m’infilai sotto le coperte senza spogliarmi, di colpo la stanchezza dell’attesa mi aveva presentato il conto. Mi addormentai avvertendo la presenza di Carlo quasi addosso al mio volto. 
Il mio fu un sonno breve ma sereno. Per la prima (e forse unica) volta nella vita ebbi bisogno del suono della sveglia per ritornare tra i vivi. Non cercai Carlo, se ne era andato nuovamente ma sapevo che sarebbe tornato. Ritornò difatti; ritornava quando le luci della nostra casa e del sole erano ancora spente. Si raggomitolava sul letto, addossandosi sui miei piedi, rispondeva al mio saluto di persona che lo aveva atteso, si poneva le zampe sugli occhi e si addormentava. Non si avvicinava alla bacinella dell’acqua, né si nutriva. Era stanco. E sporco, il suo bel pelo intriso di terra e di polvere. Come se avesse trascorso la giornata lavorando. 
Carlo veniva perché gliel’avevo chiesto. Il che, conseguenza di curiose elaborazioni compiute dal mio cervello, mi rincuorava e m’inorgogliva. Mi preoccupavano invece la sua stanchezza e la sua sporcizia. Se potevano confortarmi sulla sua salute, mi confermavano che stava lavorando a qualcosa che non intendeva, o non poteva, mostrarmi. 
 
Pierluigi Ambrosini 
 
 
 
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