Una recensione
a cura di Leandro Piantini
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Credo che pochi libri siano capaci di raccontare la ferocia della mafia (una ferocia assurda, tracotante e vile) come La punizione di Salvatore Scalia. Non so quanto Scalia abbia lavorato di fantasia. Comunque, anche se si è ispirato a una storia vera, la racconta con il respiro, l’indignazione e la forza di trascinamento che sono proprie del romanzo. C’è qualcosa di fatale, quindi di mitico, di ineluttabile nella vicenda di Pinuccio e degli altri tre “carusi” i quali, un brutto giorno, cessano di fare i ladruncoli e scompaiono per sempre. Del resto se si tratta di una storia vera, fatta riemergere a distanza di trent’anni, funziona davvero come un romanzo: non si limita a raccontare gli eventi, ma li incastona nella vita dei personaggi, nella loro psicologia, nello sfacelo umano e morale in cui vivono.
Il libro ci conduce all’interno della mafia, della sua logica aberrante e mostruosa, che non si tira indietro neppure davanti a delitti inutili e che non le fruttano nulla, tranne l’orrore e l’odio perenne di chi, nonostante l’impenetrabile omertà che una città intera cala sul sinistro episodio, non potrà mai dimenticare un delitto che è stato perpetrato ai danni di ragazzini tredicenni, colpevoli soltanto di vivere in un ambiente poverissimo dove darsi alla malavita è l’unica risorsa per campare.
Di questo libretto intenso e ispirato è autore un giornalista di Catania, Salvatore Scalia, non nuovo a esperienze di teatro e di saggistica. La punizione racconta un fatto avvenuto a Catania nel 1976 e che si concluse in tribunale dieci anni dopo. Nonostante che uno dei partecipanti all’orrendo delitto, tale Calderone, si fosse pentito e avesse raccontato tutto, la sentenza definitiva mandò assolti i colpevoli, e in primis il capomafia Nitto. Così recita la sentenza emessa nel 1986: “Nonostante la gravità degli indizi e l’attendibilità delle accuse, gli imputati sono stati assolti perché non sono stati trovati i corpi del reato”. Mancavano i corpi del reato, cioè i corpi dei ragazzi uccisi non furono mai ritrovati, nonostante che il pentito avesse raccontato con dovizia di particolari le modalità della loro eliminazione.
Scalia ricostruisce con efficacia l’ambiente in cui quattro ragazzi, di famiglie umili e miserabili, passano la vita e si arrangiano con piccoli furti e scippi. Hanno abbandonato la scuola, scorrazzano per le vie della città, essi che vivono nel quartiere più povero e malfamato, San Cristoforo, in groppa alle loro Vespine truccate, gli “scattioli”. Rubano e soprattutto scippano. Tra essi c’è Pinuccio, che è il più giovane e il più intelligente, il cui padre è andato a cercare lavoro a Milano e la cui madre, con una nidiata di figli, ha un amante e cerca di tener fuori di casa il più possibile i figli da cui ogni giorno si aspetta i proventi di azioni malavitose.
Un disgraziato giorno i ragazzi tentano di scippare una vecchia. Avviene una colluttazione, le strappano la borsetta: la vecchia cade e si frattura un braccio. Il caso vuole che essa sia la madre del capomafia, Nitto, che naturalmente non perdonerà l’oltraggio. Si tratta di “carusi”, di poveracci, ma la legge di Nitto impone la vendetta. Così Nitto, in un brano da antologia, espone il credo a cui ha ispirato la sua vita: “«Cosa siamo noi davanti all’universo infinito? Che succederebbe se ogni stella si muovesse liberamente e cozzasse con le altre? Un’esplosione dopo l’altra… Perciò il Grande Puparo ha stabilito delle regole e regge le fila di tutto. E persino un angelo ribelle precipita tra le fiamme dell’Inferno. Da questa Terra però Lui è distante, perciò qui i fili spesso s’imbrogliano. Ogni tanto il Puparo si distrae e con uno strattone solleva qualcuno al di sopra degli altri. Perché proprio io? Non si sa. Sono stato scelto dal caso e non posso cedere: loro hanno bisogno di me e io ho bisogno di loro. Guai se si diffondesse la malaerba! Ognuno deve stare al suo posto, con le buone o le cattive»”.
Non racconterò come viene eseguita la vendetta. Dirò solo che i ragazzi non dovevano essere uccisi ma solo puniti con una ferocia che non avrebbero mai dimenticata. Le cose poi andarono in un altro modo e dei loro corpi sparirà ogni traccia.
Spariti, mai esistiti, ed i loro stessi familiari fingono di non sapere e fanno di tutto per non immischiarsi, avallando l’ipotesi che — mariuoli come erano diventati — hanno fatto sicuramente una brutta fine. E ciò aumenta l’indignazione del lettore. Era dai tempi di Leonardo Sciascia che non veniva scritta una storia di mafia che contenesse una tale denuncia politica e morale. Un racconto che Sciascia avrebbe potuto scrivere e che certamente avrebbe ammirato. Esso ci parla di quattro giovani vite che, in quelle condizioni, col tempo avrebbero forse potuto prendere la stessa strada dei loro aguzzini. Ma la cosa straziante è pensare che la loro giovinezza avrebbe potuto portarli anche ad una vita normale. Come nel caso di Pino, un ragazzo sensibile e intelligente, vittima di una famiglia disastrata, che ama teneramente le sorelline, e che aveva tutte le carte in regola per diventare una persona normale.
Ho fatto il nome di Sciascia ma forse mi sono sbagliato. La storia che Scalia racconta è tutta a fosche tinte e non offre punti di contatto con quell’illuminismo che nella visione di Sciascia non viene mai meno ed è come un faro di luce che può sempre rischiarare le tenebre del male.
Forse non è invece un caso che questo racconto amaro e struggente ci venga dalla terra del catanese “acquisito” Federico De Roberto, l’autore de I Viceré, che più di cent’anni fa aveva analizzato con lucida spietatezza i perversi meccanismi sociali e antropologici che, in certi ambienti della Sicilia, rendevano inevitabili la sopraffazione e la violenza.
Leandro Piantini
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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