Pagina precedente 
 
 
La parola alla parola
La professoressa Marisa Napoli autrice di numerosi testi didattici, usciti per i tipi di case editrici prestigiose quali Rizzoli, Zanichelli, Laterza conduce all’Università cattolica di Milano (e per la precisione presso la Ssis, sorta di accademia dove i futuri docenti degli istituti superiori apprendono le migliori tecniche d’insegnamento) una serie di laboratori che, incentrati sulla scrittura creativa, consentono ai giovani quelli laureati in latino e italiano di sperimentare e acquisire una vasta gamma di competenze e abilità linguistiche, necessarie ad affrontare con maggior consapevolezza, un domani, il gravoso impegno di educare, istruendoli, gli adolescenti e i ragazzi delle scuole secondarie. 
 
Le righe precedenti, per rendere senz’altro espliciti lo spirito e i contenuti della presente rubrica, che si preannuncia davvero interessante e che la professoressa sfrutterà per dialogare con gli ex allievi dei suoi laboratori e, specialmente, con i visitatori de «L(’)abile traccia». I quali sono dunque invitati a contattarla (l’indirizzo di riferimento è marisa.napoli@fastwebnet.it) per interpellarla con fiducia, domandandole in merito alle dinamiche e regole teoriche su cui si fonda in genere il “bel comporre” i chiarimenti e le delucidazioni più svariate. 
Sarà anche possibile (ma solo dopo aver consultato questa pagina) spedirle per e-mail i propri inediti; la professoressa li commenterà volentieri in “La parola alla parola”, usandoli inoltre come spunto concreto per illustrare e svelare a pieno i segreti meccanismi della scrittura creativa nonché delle affascinanti discipline (l’arte retorica e la critica) che le sono strettamente connesse.
 
Una recensione 
a cura di Marisa Napoli
Giorgio Mannacio, Visita agli antenati (1999-2001), Philobiblon, Ventimiglia, 2006 
 
 
La Visita agli antenati implica un “nostos” ovvero un viaggio di ritorno, e di Ritorno alla casa dei padri (p. 50). La poesia è il veicolo che fa viaggiare dalla realtà al confine tra vita e morte, sulla soglia del mistero (dove soltanto l’amore può “sciogliere il nodo dell’enigma”). Ma la realtà è “impassibile”: la vita riguarda noi vivi, la responsabilità del ricordo e della comunicazione è dei vivi: i morti non ritornano. 
Giorgio Mannacio non solo scrive poesie ma riflette anche sulla poesia, come lettore, e sta elaborando una sua ermeneutica. Dice: “Per sua natura la poesia, all’apparenza così privata, circola nel mondo anche quando è sconosciuta; ciascuno se ne appropria quando, dove e come vuole, consumandola nel modo che ritiene più coerente con i propri gusti”. 
Concordo con Mannacio. Ogni testo è in un certo senso riscritto dal lettore. Chiunque prenda in mano questo suo libello può avere approcci diversi. Si può essere attratti da questa problematica esistenziale che tutti ci riguarda e ci lega: il rapporto con le radici, tra memoria e nostalgia. Ma altri aspetti traspaiono se si ripercorrono uno dietro l’altro i paragrafi identificati con “fuoco”, “acqua”, “terra”, “aria”: si può avere l’impressione che il discorso poetico voglia spaziare dal livello esistenziale al livello cosmico, fino agli “antenati” primordiali, ovvero i quattro elementi dell’origine. D’altronde Mannacio ci aveva abituato a questo poetare di stile lucreziano, da Comete e altri animali a Fragmenta mundi: il discorso verte sempre sull’uomo, che però viene inserito in un contesto cosmico, sebbene in posizione decentrata, frammento tra altri frammenti. Nella poesia di Mannacio non c’è spazio per alcun compiacimento antropocentrico, tanto meno egocentrico. Al punto che “il poeta è una stella cadente,/ sortilegio della parola, fiamma breve/ e, prima e dopo, niente”. 
Il linguaggio, curato, ha una limpidezza classica. La poesia procede per improvvise epifanie, scaturite da particolari soluzioni linguistico-retoriche. Le rime sbocciano, sorprendenti. Per esempio, parlando delle forme della natura, la rima baciata “l’ebbrezza/ della smemoratezza”, che a prima vista è ingenua, disvela intuitivamente, ma in realtà sostiene sotto forma di argomentazione, il meccanismo dell’oblio che connota gli elementi naturali: questi, soggetti a incessante metamorfosi nella trasmigrazione da uno stato all’altro, dimenticano la condizione precedente. Soltanto un “soriano regale” (p. 20), che ci ricorda la “[...] divina Indifferenza [...]” del “[...] falco alto levato [...]” di montaliana memoria, sembra essere “lui solo immortale”, nella sua sorniona impassibilità. Metamorfosi e rivelazione (p. 61) conferma il concetto che tutto è soggetto a morte e a trasformazione. 
La fotografia e il suo doppio sembra essere scaturita da una metonimia che è la figura retorica che “ha saputo fare della sua assenza segno di incantamento” (p. 43). Proprio come la fotografia, che per sua natura è sineddoche, in quanto ritaglia e fissa ossimoricamente “la breve eternità” di un istante, ovvero la parte per il tutto, ma è anche metonimia, perché porta in praesentia ciò che è in absentia e che rimane sottinteso: gli assenti (o i morti o gli antenati?) non tornano, ma attraverso poche tracce possiamo risalire alla loro presenza, possiamo risentire la loro voce. Basta saperle decifrare le tracce. 
L’epigrafe “c’era una volta un re… ”, riportata come incipit nell’ultimo settore “aria”, è un perfetto esempio di concatenazione particolare, che ripete sempre se stessa, e per questo bene esemplifica la storia umana, che riproduce sempre se stessa. Unico argine al continuo fluire del trasmutare delle cose nel tempo è la poesia, perché “la parola/ è custode del tempo/ l’incantatrice”. E l’incantamento consente un attimo di sospensione (p. 59), dove può accadere la rivelazione, l’epifania che consente di conoscere, di prendere coscienza, di definire identità (che saranno però sempre indefinite, parziali, precarie): “l’arco breve/ di questa futile, disarmata esistenza” (p. 65) si tende, con consapevole leggerezza, nell’“aria” della sezione finale soltanto al cospetto dell’innocenza di una bimba. Di fronte all’imperiosa fragilità dell’infanzia gli argomenti umani s’infrangono, e anche la parola, prima fra tutti, è smarrita: eppure il riscatto per l’adulto potrebbe partire dall’impegno a ri-dare alle future generazioni il “paradiso perduto”. I morti non ritornano, ma i vivi hanno la responsabilità di riportare il mondo alle “origini”. O almeno tentare. In questo messaggio finale identifichiamo il valore della poesia di Mannacio. Valore etico e civile di un forte richiamo alla responsabilità: e ben sappiamo quanto di questo oggi abbiamo bisogno. 
 
Marisa Napoli
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
È vietato l’uso commerciale e la rimozione delle informazioni di Copyright 
 
 
 
 
Torna alla homepage      Pagina precedente