Una recensione
a cura di Anna Antolisei
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L’“Aretusa” di LietoColle s’arricchisce d’una silloge poetica fuori dall’ordinario, che segna davvero una parentesi di rottura stilistica nella consuetudine della lirica attuale.
L’artefice di questo inusitato viaggio, che procede a ritmo di terzine e di endecasillabi nell’universo della “specie opaca”, è Ivan Fedeli, poeta figlio di una generazione che, sentendosi privata dei valori vigorosi, trainanti di altre età più o meno prossime, trova rifugio nell’osservazione acuta, spesso ironica e inclemente, a volte segnata da un’ombra di tenerezza, di un quotidiano i cui protagonisti sanno ugualmente lasciare, nella memoria, un tratto saturo di forgianti significati.
Fedeli, per inventariare la specie umana che gli è prossima e familiare, si avvale, più che di un metodo, di uno sguardo che viene spontaneo definire “cinematografico”; che rievoca cioè le indimenticabili scene dei veri maestri della settima arte italiana nel suo momento di espressività più alta, quella che seppe fare scuola incantando il mondo intero. Richiami di film in bianco e nero d’un tempo svanito, ma qui letterariamente restaurati aggiungendo sfumature di colore delicato e mai invasivo, perfettamente in tono con il teatro dell’azione, con un contesto talmente ben delineato da velare gli attori stessi di una luce d’ingannevole irrilevanza.
La regia dell’autore, poi, negli episodi che formano le tre parti del suo raccontare in versi i protagonisti d’una specie in realtà non così opaca, offre al lettore già coinvolto, in caduta libera lungo il percorso dell’esposizione, una sorta d’appagante sorpresa a chiusura di ogni lirica. Si noti, infatti, la cura con cui Fedeli — soprattutto nel primo capitolo di terzine — pone negli ultimi due versi un accento tutto speciale, un guizzo di leggera intensità che suggella con grazia vivace il senso dell’intera composizione.
Si susseguono dunque, nello srotolarsi di questa pellicola scritta, gli episodi che hanno come protagonisti i rappresentanti dell’opacità di Fedeli che, comunque, più umana di così non potrebbe essere. C’è Veri lo scarparo con la sua fissazione per il calcio; i fratelli Colombo assieme al loro “pensiero etico” mai benevolo che seguono a ruota le “Sorelle di bandiera”, “sposate con se stesse e con il tempo”. E compaiono, nel secondo capitolo, i punti chiave d’assembramento paesano: il “Cinema Margherita” con la sua cassiera che dispensa sogni a piene mani; la tabaccheria e la sua gerente al banco, “un porto fatto a modo suo/ ci passano le storie a fotocopia”; non manca la vecchia merciaia che, alle donne del borgo, vende lingerie folgorante, a suo dire, come un’arma di distruzione di massa.
Ancora denso di storie private e collettive il terzo capitolo, nel quale la Deriva estiva spinge sui lidi d’agosto badanti e passeggini, padri-custodi d’innumerevole figliolanza e una Sandra che, l’inglese, lo mastica solo così così. Spunta un Pablo ancora rosso di rivoluzione seguito dall’operoso Pino, “quello della terra d’Acri” che “ci stava su in Brianza da pascià”. E, passando per una “Edicola votiva”, si giunge alla Voce ultima, quella dell’autore, che così esordisce: “Eppure lo vorrei che non finisse/ mai, il calcolo dei giorni da fermare [...]”.
È tutta da godere questa chiusa illuminante pensata da un aedo dell’esistere senza esagerazione che però (rimarcando: “Se scrivo è per protesta [...]”) reputa la “Poesia, mezza rivolta. Antidoto// al silenzio senza pregio [...]”. Dunque reagisce, Fedeli, alla presunta opacità del micro (o macro?) cosmo descritto, e le ragioni del suo canto si fanno implicitamente chiarificatrici, esaustive nei due intermezzi, nelle due parentesi di riflessione che pone tra i capitoli. Nel Poemetto in sala d’attesa la vita ferve d’eterogeneo viavai da stazione ferroviaria, ma dal treno dell’essere “si sale e già si scende, non c’è meta,/ soltanto il trasportare sotto un tetto/ i chili accumulati a rimanenza;/ [...] adesso me lo dico non è giusto/ il lento scivolare nella lista/ di quelli senza sede, a testa bassa/ col vento che già ingoia quanto basta/ profili, rughe spesse, compromessi,/ e scosse di viventi, contrappassi”. Un quadro pieno d’agrodolce suggestione, confermato dal secondo intermezzo dove, nella cartolibreria di Liliana, in un mix di Leopardi e Calcagno, Montale e Dante, Gozzano, Pasolini ed uno Scarabicchi che non si trova, avviene l’affettuosa iniziazione letteraria dell’autore: “È questo poi l’eterno cosa credi,/ diverso tutti i giorni e ciò che vedi/ è parte a qualcos’altro, se lo cogli [...]”. E la saggezza di Liliana è ricambiata, omaggiata dal poeta: “E mi facevo piccolo davvero,/ cercando con lo sguardo pur per poco/ la strada che da lì ti porta al mare,/ ancora come adesso che non so/ se il vivere e lo scrivere equivale,/ se altre sono le certezze care”.
Non fosse che per indagare sulla risposta è, quella di Ivan Fedeli, una silloge poetica che il lettore non deve perdere: meno ancora va trascurata da chi indulge alla scrittura, perché l’opera è architettonicamente e stilisticamente istruttiva, certo, ma anche perché è un esempio di maestosa e rara umiltà: “Né desidero di più di questo onore/ di tracciarne un segno un po’ a diario/ le voci così seguono — Liliana —/ pure nel loro essere in se stesse/ e nel tornare, incessante, del mare”.
Anna Antolisei
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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