Una recensione
a cura di Lucia Visconti
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Non sono “nugae” (inezie), gli scritti di Stefano Bianchi, e questo già lo testimonia la casa editrice che ha curato la pubblicazione.
Passaggi di colore originali e sempre forti esprimono intenso vissuto.
Il libro si apre con un attacco sarcastico al conformismo intellettuale: “Dell’Arte,/ Arte oggi come ieri/ come sempre, penso,/ Arte come atteggiamento/ come veste, come fregio/ oggi come oggi me ne frego”.
E non possiamo negare che nonostante si viva in una società piena di conflitti familiari, nazionali, mondiali, c’è ancora chi fa dell’espressione più vera e profonda della vita, mera esteriorità, apparenza melliflua, manierismo. Facile riconoscerla già dal primo verso, e accantonarla con noia, così come immediata è la vibrazione dei versi del Bianchi nella quale il lettore sente l’emotività parlare alle corde più nascoste.
Amore, sfogo graffiante, ironia, riconciliazione, apertura alla vita si rincorrono come battito tachicardico, in forma di epigramma (“Non darmi del codardo, bestia,/ se fuggo è perché inseguo — sveglia! —/ qualcosa di migliore”) o di lirica vera e propria: “Confrontarsi, giorno per giorno,/ con le meraviglie/ che il mondo nasconde agli occhi distratti/ dell’uomo [...] e andare/ cercando nel passato altri motivi/ collezionando ciò che meglio esprime/ questa sfrenata e cieca e lenta corsa/ all’immortalità e trovo te”.
Nella nota biografica, di Stefano Bianchi si dice: “Frequenta i corsi del poeta Giancarlo Majorino, al quale si affida, facendosi a pezzi per ricostruirsi”. Il suo farsi umile è il segreto della metamorfosi: del risorgere della vita come slancio per raggiungere “qualcosa di migliore”.
Venerdì Santo 2000 è la lirica-chiave della con-versione del Bianchi. Poesia esistenziale, dunque, testimone della Pasqua: “Un uomo,/ l’uomo,/ quell’uomo,/ storicamente provato, forse,/ calcando i piedi/ sul Calvario,/ calcate fruste e sterpi/ calcato il ruvido flagello/ calcati i chiodi/ nelle palme molli/ e dentro i piedi/ duri, è morto,/ oggi, mentre ridevo,/ urlavo,/ imprecavo, fumavo e/ bevevo,/ mentre mi masturbavo,/ e a quanto pare,/ dicono, mi amava”.
Le espressioni di rabbia, talvolta anche volgari del poeta, “vecchio” interiormente, si comprendono come segni del buio in cui marciva la sua vita, e sono interfaccia della seconda parte del testo, dove la luce della scoperta di Dio, unico artista, che “[...] mano profumata e calda/ si emoziona nell’ascoltare” l’uomo, interroga per la sua gratuità e provoca con l’emozione una risposta di amore.
Commuove e interroga fortemente quindi il messaggio di speranza di Stefano Bianchi, nient’affatto scontato in questa società alla deriva.
Lucia Visconti
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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