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Una recensione 
a cura di Lucia Visconti
 
 
 
 
 
Menotti Galeotti, 
I passi e i giorni, Edizioni Helicon, Arezzo, 2005
 
 
Mi sono accinta volentieri a scrivere la nota a I passi e i giorni di Menotti Galeotti, cercando di non lasciarmi influenzare dalla sua fertilità di narratore e di poeta. 
In definitiva ho preferito accostarmi alle pagine con mente vergine. 
 
Mi ha incuriosito il titolo: certamente doveva trattarsi di una storia quotidiana. 
La sorta di incipit scelta dalle odi di Salomone, per ambientare il lettore, ha segnato il messaggio: “Armatevi di tenerezza/ voi che amate”. 
 
L’autore non entra immediatamente nell’urgenza di armarsi per amare davvero. 
Per alcune pagine, da ottimo architetto, si sofferma a porre fondamenta ben solide, atte a costruire psicologicamente il protagonista quale si trova all’inizio del racconto. 
Salvatore, pugliese, quasi sessantenne, vedovo, senza figli, immigrato da mezza vita a Rignano, paese del Casentino, trascina “passi e giorni” in attesa del pensionamento. Inserviente ospedaliero, stanco del pendolarismo quotidiano, non pensa ad altro che alla meta ormai prossima. 
Poi ci sarà tempo per lavorare nell’orto, unico suo sollievo, e riposarsi tra le chiuse pareti domestiche dove regna esclusivamente il gatto Gelsomino. Scarsi infatti i contatti sociali, limitati ai colleghi e a qualche famiglia vicina. Non a caso viene ritratto, molte volte, a commentare ad alta voce i piccoli eventi: mentre tira su le serrande che cigolano maledettamente (“«Avranno bisogno di un po’ di grasso; anche loro invecchiano»”); oppure: “Il gorgoglio del caffè che sale lo richiama in cucina: «Arrivo!», esclama a voce alta e mentre abbassa la fiamma: «Che hai da brontolare?»” … ... e così via. 
 
Fissate le fondamenta, l’artista prosegue il suo disegno, fino a portarlo a termine sorprendendo chi osserva: “semplici, banali passi e giorni, possono rimuovere la solitudine, subdola serpe che castra i veri sentimenti dell’uomo”. 
Salvatore lentamente si “armerà di tenerezza”, suo malgrado, per sostenere in ogni modo una giovanissima cinesina, ricoverata per un gravissimo incidente, più volte operata, bisognosa di una lunga fisioterapia e totalmente abbandonata a se stessa. 
Gli unici “congiunti” sono diventati, nei mesi, gli ospedalieri, incluso appunto Salvatore. In lei rivive il suo disagio di immigrato, quando lontano dalle pur grame sicurezze, si era trovato a combattere, inerme, per vincere il “Palio della vita”. La sua carne, apparentemente protetta dall’indifferenza per i “fatti altrui”, riscopre il calore dell’amicizia, del dono sincero di sé, grazie alla ragazza (da cui non può attendersi, e lo sa bene, quel compenso affettivo che in fondo accarezza). 
E nonostante senta il bruciore del taglio — “a vivere soli è facile essere feriti” — attinge, proprio dal dare senza interesse, quel colore ai passi e ai giorni che credeva irritrovabile. 
Così lo scrittore nella chiosa, con lirismo inatteso, tratteggia l’uomo rinato, in piena sintonia con la natura: “Al di là della recente delusione, quel che restava della sua esperienza era più grande dell’amicizia con la giovane cinese: le aveva offerto la parte migliore di se stesso… ”; “«Di sicuro qualcosa è cambiato», si ripete e continua a osservare, lungo gli ultimi metri che lo separano dalla cima del poggio, gli alberi con le prime foglie e poco distante la siepe d’alloro. Più in alto intravede il recinto dell’orto, i rami del gelsomino che si agitano appena; rallenta per riprendere fiato, poi accelera il passo”. 
 
Lucia Visconti
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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