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Una recensione 
a cura di Simonetta De Bartolo
 
 
 
 
 
 
Salvatore Sblando, 
Due granelli nella clessidra
LietoColle, Faloppio, 2009
 
 
Due granelli di un esistere legato alla finitezza dello spazio e del tempo. Due granelli prossimi all’inevitabile “trapasso”, alla caduta nella parte inferiore di una clessidra che nessuna mano capovolgerà più. 
Consapevolezza lucida della monotona labilità di un presente, efficacemente trasferita nelle metafore del cigolio sempre uguale delle porte del tram, nel vano salire e scendere scalini che, alla fine, restano inzuppati di “impronte fradice [...]”; struggente nostalgia di ciò che è rimasto per sempre incompiuto (“[...] il lenzuolo/ nella metà che più non stiri”); impressione d’incertezza, “[...] che oscilla/ fra quel che più non ho/ e ancora dovrò perdere [...]”, e di disorientamento: Era Caorle o Bibione?, Lisbona, probabilmente; sguardi alla deriva nel non senso del vivere e delle nostre scelte; inutilità dello sforzo di riempire artificiosamente e ipocritamente vuoti esistenziali; impossibilità di trovare risposte che diano significati, chiariscano, consolino. 
Pur in questa visione pessimistica, la poesia di Salvatore Sblando evita toni e pose melodrammatiche, anzi sembra voler passare a volo proprio su tali aspetti negativi del vivere, chiudendoli quasi in un pudico, veloce, personale riserbo; ma, il lettore percepisce chiaramente l’estensione all’universale di ciò che riguarda l’individualità dell’esperienza umana del poeta, riporta a galla il non detto, riempie i silenzi, fa sue l’angoscia del distacco, l’amarezza di una solitudine incapace di riavvicinare o ricongiungere, la scoperta dello squallore esistenziale, l’impotenza di fronte al “[...] vuoto che ci pensiona”, ad un destino di morte, che si compie tra assenze e indifferenze, tra macerie materiali e spirituali, che è scivolamento in un oblio inesorabile, in un nulla dove “[...] nemmeno il fitto sferragliare del tram” potrà accompagnarci. 
Da tutto ciò nasce una forte esigenza di recupero memoriale (“[...] Noi tranvieri sappiamo sempre/ quando guardarci appresso”, “[...] un richiamare di mente/ al tempo andato”), pacato ed essenziale, della storia dell’anima del poeta, di cui sono stati partecipi e sono custodi gli “[...] alberi fioriti in piazza Statuto”, il nostalgico perire dell’autunno, la fragilità del nevoso paesaggio invernale, la calda accoglienza dei portici, i tetti bianchi della sua Torino, il “[...] pigro incedere del fiume [...]”, l’indistinto sguardo di una donna o i suoi “[...] capelli raccolti/ da un foulard [...]”. 
Un continuo correlato oggettivo contrapposto a ciò che “sfuma” sebbene ancora fresco, allo sbiadire inevitabile del ricordo di un passato in parte perduto per sempre (“Si perde [...] la tua ombra/ [...] Nel riflesso della polvere/ sui vetri [...]// E dal mio zaino ritrovo/ le Ceneri di Pasolini [...]”), che si fa assenza calma, muta come il suono del vento. 
E se la riflessione raffredda il cuore, toglie la capacità di sentire, di dare vita e calore e se il “verde” degli occhi della donna amata si spegne e se gli addii ci consegnano al declino di noi stessi, delle favole e dell’amore, restano i desideri e l’“[...] amica musa” del poeta soffia sul fuoco del piacere, del bello e della spiritualità, dell’inatteso e del ritrovato, esalta lo splendore nostalgico del mare, ci è compagna nella dolcezza del ricordo degli amori, ci culla e ci dà sollievo in teneri abbandoni, ci rafforza nell’amore del proprio scrivere e rende omaggio a coloro che lo hanno già fatto. 
 
Simonetta De Bartolo
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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