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Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
 
 
 
 
 
Giorgio Havis 
Marchetto (a cura di), 
1915-1918: un uomo, 
una donna, Meridiano zero, 
Padova, 2010
 
 
Se la guerra qualcosa di buono ha prodotto, difficile a credersi, è l’immane quantità di corrispondenza tra i soldati e le loro famiglie. Voci e vite che, altrimenti, non sarebbero uscite allo scoperto, fuori dall’anonimato di una trincea e di una quotidianità travagliata. Rarissimo, infatti, che si conservino nel tempo le lettere dei soldati alle proprie mogli, di queste ai propri mariti al fronte. 
La raccolta curata da Giorgio Havis Marchetto può far venire in mente un’altra raccolta dal titolo Lettere di condannati a morte della Resistenza europea1: “A differenza della maggior parte di noi mortali mi è dato sapere che fra poche ore morirò e ti posso assicurare che ciò non mi spaventa […] un supremo sconforto mi assale ed un dolore immenso per il male che vi faccio”. Ma a differenza di quelle lettere, scritte nell’imminenza di una fine certa, magari col sangue sul muro di una cella, queste dialogano tra loro, riportando stralci di vita ancora palpitante, nonostante il tempo, gli eventi trascorsi e l’incombenza della morte. 
Il carteggio qui presentato, infatti, ripercorre ininterrottamente la vita quotidiana e intima di due coniugi, Pietro Caprin (classe 1889) ed Elisa Bagattin (classe 1893), in un periodo di tempo che va dal 1916 al 1919. Per la precisione, la fitta corrispondenza inizia subito dopo la chiamata alle armi di Pietro, e dopo la nascita di due figli, con Elisa costretta profuga a Caldogno (Vicenza) per l’arrivo degli austriaci nel suo paese, in Val Posina. 
Dalle lettere emergono vite, carne viva, sentimenti, sensazioni. Svariate le informazioni che Pietro ed Elisa ci trasmettono, insieme a tanta intimità che pare quasi di spiare, seppure in un tempo postumo. 
Per Pietro la scrittura è vitale, l’inchiostro sangue, la carta carne viva. “Potete star certa che se io non scrivo più è perché non vivo più”. E sono vita le lettere di Elisa, attese con ansia e inquietudine, troppi due giorni tra l’una e l’altra. La scrittura, quasi una traduzione di costrutti dialettali, è semplice e poco acculturata, soprattutto quella di Elisa, e rispetta uno schema prestabilito, cosicché le lettere vengono formalmente ad assomigliarsi, a prescindere dal contenuto (felice o tragico). I due non erano abituati a scrivere, forse nemmeno a parlarsi quando vivevano insieme, lo si nota anche dalla disposizione delle parole sul foglio, come se il tanto dire non trovasse spazio a sufficienza per esprimersi e dovesse rimpicciolirsi, deformarsi quasi. 
Da parte di Elisa sono continue e poetiche dichiarazioni d’amore a Pietro che, lontano, è assalito da innumerevoli sospetti e da una forte gelosia. Da parte di entrambi continue le invocazioni a Dio. La situazione di Elisa non è certo facile: donna sola, con due figli piccoli da crescere, profuga, costretta a vivere con i suoceri e la cognata. La sua è una lotta quotidiana per la conquista di una certa indipendenza, per l’affermazione della propria identità (quasi che una donna senza marito all’epoca non ne avesse il diritto). Per questo Elisa esige che le lettere di Pietro siano indirizzate personalmente a lei e non alla famiglia di lui. Per questo arriverà a tenere per sé il sussidio statale destinato ai profughi, dapprima consegnato ai suoceri. Elisa, donna sola, viene trattata come un cane ed emarginata. Per questo chiede l’aiuto del marito lontano che, per quanto possibile, cercherà di mettere pace in famiglia, lui che ha problemi ben diversi e più gravi. “In genere sbaglia più mia madre che voi, ma sapete che dobiamo noi che si arende verso i patroni”. Ma la pace sperata non arriva. 
Pietro dimostra un senso di protezione per la moglie, ma non mancano i rimproveri e i richiami ai valori che lui ritiene fondamentali per una donna: umiltà, rettitudine, prudenza (in molti, secondo lui, possono attentare al suo onore). Valori senza i quali l’uomo non se la sente di rispettare la moglie. Che, dal canto suo, non fa che ribadire di continuo il suo amore, la sua lealtà, arrivando a chiedere più rispetto. Ma è Pietro a raggiungere il limite, quando scrive a Elisa chiamandola “donna perduta” allorché, partiti gli austriaci dal suo paese, ella decide di rientrarvi per recuperare qualcosa dalla loro casa. Ma Pietro è soprattutto geloso dei soldati, perché c’è di mezzo l’onore da mantenere. “Non è giusto e non merito, io patire sofrire ogni cosa e voi usare la libertà perché io lontano che non vi vedo”. E ha da ridire anche su alcune foto che Elisa gli fa pervenire. “Però avevo ancora più piacere che non vi avessi fatta fotografare colle braccia nude […] pare che voi siate no mia moglie ma una donna qualunque”. 
Elisa, dal canto suo, nel difendersi cerca di rassicurarlo: “No il mio amore l’ho conservato […] la coscienza la ho libera ancora e non credete che io abbia perso il sentimento deltutto”. La sua unica colpa pare essere quella di pensare prima ai loro figli che a scrivergli con celerità. Ma anche sui figli Pietro ha da ridire: “Se per caso vi troverete in seguito priva di mezzi, avete l’obbligo di scrivermi prima a me, e io sarò pronto a soccorrerli tanto nel vitto che nel vestito”. Sì Pietro, ma come? 
Anche di guerra parlano le lettere, ove risuonano nomi di luoghi ancora oggi evocativi: le battaglie dell’Isonzo, quella di Caporetto, quella dell’Ortigara, il Carso, l’altopiano di Asiago, il Piave. È una vera e propria escalation: la speranza di Pietro di non rimanere ferito gravemente, la stanchezza, la speranza nell’intercessione del papa, la disillusione, l’angoscia di non vedersi più. Per Elisa è, invece, la rabbia contro lo stato di non poter avere accanto il marito in occasione della morte del figlio primogenito, la rabbia contro chi con la guerra si arricchisce. “La parte che sono più poveri devono versare il sangue anche per i ricchi […] questi infami fanno la guerra con il sangue dei poveri e con più lunga che vanno essi più si gode più si diverte e più trionfa”. È soprattutto Elisa a parlare di guerra. Pietro pare negarla, quasi il foglio fosse una tregua, un’isola felice, una terra di nessuno invasa dal silenzio. Lui preferisce parlare dell’altra vita, quella con Elisa, per tenere lontana la morte che, invece, sente incombere. Ma è proprio la morte a fargli apprezzare la vita, a spingerlo a interrogarsi sul senso dell’esistenza: che è quello di amare ed essere amati, che è quello di una vita semplice, fatta di solidi valori, che è quello della pace fra gli uomini, delle tradizioni, del mondo antico. Perché Pietro è contro la modernità, contro le mode. “Mondo traditore che col far apparire il bello al di fuori usando tutte le mode cerca di ingannare la gente innocente”. 
Ecco allora che Pietro resta trincerato dietro i suoi pregiudizi (“la libertà è rovina”), mentre Elisa lentamente si “emancipa” grazie al desiderio di autonomia economica e di difesa della propria identità. Al quale Pietro si oppone: “Non voglio che andate a lavorare da nessuno per mangiare”. Per poi arrendersi, stanco: “Non posso però pretendere che fate contro la vostra volontà”. 
 
Lorella De Bon 
 
 
 
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1 ^ Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Einaudi, Torino, 1995.
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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