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Il sopravvissuto, Il coraggio del pettirosso e Il colore del cielo 
 
 
Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
 
 
 
 
 
 
Serena Dal Borgo, 
con pelle d’ardesia
Book Editore, Ro Ferrarese, 2005
 
 
Il poemetto della bellunese Serena Dal Borgo è parola che si fa immagine, che fa immaginare questo e mondi altri, parola che si fa musica, che fa risuonare note e sentimenti. 
Il libro è caratterizzato da parole-chiave ricorrenti, che si inseguono e mescolano a dare significato alla scrittura. Tra le pagine si possono trovare, sparse qua e là, delle piume e delle ali in volo, un pezzetto di cielo solleticato dal vento, un velo a nascondere o lasciar intravedere pelle d’ardesia, per l’appunto. 
Serena rievoca la morte prematura di Marzia e Daniele senza mai entrare nel merito, ma facendone uno sfondo sul quale dipingere gli angeli e Dio, ispirandosi alla natura, ai suoi profumi e alle sue stagioni, che vanno e vengono in un alternarsi di vita/morte che tanto somiglia alla precaria condizione umana. 
Nel poemetto la natura si fa madre, reinventandosi per i propri figli, rinnovandosi o perendo sotto un cielo che rappresenta il volere di Dio, e forse anche qualche suo sbaglio, come quello di chiedere indietro due giovani vite che ancora non avevano scoperto il mondo, gli altri, se stesse. “Tutto tace. Gli alberi/ le foglie gli uccelli/ i galli le viole./ Tutti sanno [...]/ […] del ciao non ritorno./ della bara bianca/ dei gigli profumati”. 
La parola “madre” è immensa per Serena, riesce a comprendere un’infinità di figure: la natura, la terra, la propria madre, le madri di Marzia e di Daniele, le altre mamme. Madri che sopravvivono ai figli e madri tutte, destinate geneticamente a “perdere” i propri figli, quando questi sceglieranno la loro strada. “La madre/ si allontana/ senza le mani/ senza una lacrima/ senza respiro./ Si allontana dal rosso/ tuo sorriso”. 
La scrittura è frammentata (di più: singhiozzata), disseminata di punti. I versi sono brevi, anzi brevissimi, a volte limitati a una sola parola, a un solo singulto. Le poesie, o meglio le strofe del poemetto, sono altrettanto corte, rintanate in una sorta di timidezza, di dolore che ha paura di disturbare. Perché la sofferenza sempre inibisce la parola, spezza il fiato in gola. Anche dopo, quando il tempo ha prodotto distanze, ricordi, malinconie. E Poesia. Ecco allora che i singhiozzi si fanno punti, note musicali sopra uno spartito senza righe, sopra una pagina bianca. Ed è musica che non vuole finire, poesia che ha dentro di sé la necessità fisica di dire, di liberarsi in volo: “pianoforte la pelle/ sistri d’argento/ le dita./ concerto sul prato./ concerto per vetri/ velati — racconta di me/ di te di grilli di locuste./ di te di me — di noi/ nel blu distesi”. 
Spesso dopo il punto la parola non si fa maiuscola, si mantiene piccola nella continuità, nella sobrietà, nella timidezza di mostrarsi. Ma resta l’urgenza, quella sì, resta il dolore, il dialogo tra chi rimane e chi è volato via. 
Non proprio originale, ma di una certa efficacia, l’uso del corsivo a indicare le parole dell’altro (persona o alter ego), la cui memoria perdura negli oggetti toccati, che furono testimoni di una vita, delle vite tutte: “e la casa ti ama./ la casa ti chiama./ ti tiene, ti ascolta./ la casa./ e io arrivo da te da me”. 
E le persone, nonostante il tempo incessante, restano nel cuore dei vivi, squarciano il buio con una luce accecante, che riscalda e tiene compagnia e, a volte, fa nascere Poesia. “So che dopo la perdita tutto assume una dimensione ovattata, sospesa, di attesa. Un’attesa che mai si compirà, che tale resterà per sempre. Ogni istante, ogni respiro, ogni passo. Così, è nato il poemetto [...]” si legge nella breve nota finale dell’autrice, a spiegazione della genesi del libro. 
È dunque un’opera, quella di Serena, nella quale tutti possiamo ritrovarci (chi di noi non ha perso almeno una persona cara?), per poi imbatterci in grandi temi universali: il rapporto genitori-figli, la ricerca incessante di Dio, il rispetto della natura, l’approccio alla morte, il dolore dei vivi, la memoria consolatrice, la speranza nel Regno dei Cieli. 
Ed è proprio nella verticalità che si esprime lo slancio dell’autrice verso i suoi cari, verso il Paradiso: i girasoli sono “protesi al cielo”, la pioggia ha un “ritmo verticale”, il volo è “ascesa”, lo sguardo si alza alla luna. “Respira Daniele, respira le foglie./ Non lasciarmi qui/ sola/ nel buio della morte./ Il mio petto singhiozza,/ il tuo sole s’oscura./ Alzo la mano tra i neri capelli./ Alzo lo sguardo. Alzo ogni velo”. 
Verticalità e percorso “à rebours” nella stesura dei versi, dal dopo, dal distacco, al “Decalogo del prima”, ai ritratti dei due giovani, agli inni. Sembra un paradosso, eppure il senso sta tutto nella speranza e nella memoria: speranza in un mondo altro, memoria di un mondo andato. 
Un plauso a Serena per questa sua prova di coraggio: perché mettersi a nudo non è cosa facile, soprattutto quando ci si mostra agli altri nel dolore e nel pianto. Un coraggio che la Poesia permette, senza falsità alcuna. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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