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Il sopravvissuto, Il coraggio del pettirosso e Il colore del cielo 
 
 
Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
 
 
 
 
 
Luigi Romolo Carrino, 
Pozzoromolo
Meridiano zero, Padova, 2009
 
 
“Non sono pazza, non sono mai stata pazza. Sola. Questo sono: sola […] devastata dalla mia solitudine”. 
Ho pensato a lungo a come iniziare questa recensione, ma solo di recente uno scambio di opinioni con un’amica mi ha dato l’input necessario, che si concretizza in una domanda: fino a che punto spingersi per poter coinvolgere il lettore quando si trattano temi sfruttati quali la violenza sui minori, la malattia mentale e i disturbi dell’identità sessuale? È buono e giusto, oltre che corretto, puntare sull’originalità a tutti i costi quando in ballo ci sono questioni di siffatta importanza per l’essere umano? 
Queste domande sono pertinenti a Pozzoromolo, in quanto l’ennesima prova letteraria di Carrino affronta proprio i temi sopraccitati. Dunque, siamo in presenza di un testo scontato? Limitandomi ad analizzare i temi, posso tranquillamente affermare che il libro è scontato, privo di originalità. Ma questo, a mio modo di vedere (e qui sta il nocciolo della discussione avuta con la mia amica), non lo ridimensiona, anzi ne costituisce un pregio, un valore aggiunto. Mi spingo addirittura ad additare in Pozzoromolo una prova di grande rilevanza sociologica (gli esperti vorranno perdonarmi l’intrusione in una materia che non è la mia). 
Altro punto forte del libro, ma questa non è una novità per chi già conosce Carrino, è il tipo di scrittura: l’autore ha una tale padronanza della lingua italiana da sembrare un esperto giocoliere alle prese con il lancio di parole, segni d’interpunzione e tempi verbali. Un linguaggio, che a tratti si fa poesia, del tutto funzionale al protagonista della storia, alla protagonista, o meglio a entrambi. Perché in una stessa persona convivono due identità sessuali ben distinte, che si alternano tra passato e presente sin quasi a far perdere al lettore il senno, il filo della ragione. È un senso di smarrimento quello che ho provato immergendomi nella storia, una sorta di paura ancestrale del vuoto, quando si perdono tutti i punti di riferimento e si gira inutilmente senza meta. Un po’ come Gioia, la/il protagonista, rinchiusa in un manicomio criminale del quale racconta e scrive il trascorrere delle notti e delle giornate, dal quale evade grazie ai ricordi che si accavallano l’uno sull’altro, confondendosi, confondendoci. 
È un vero e proprio diario quello che Gioia compone, raccontandosi per comprendere le ragioni della sua esistenza al mondo, i meccanismi perversi che continuano a legarla a un padre assente e a una madre eccessivamente severa e distratta, i motivi che giustificano le proprie mani macchiate di sangue altrui. Ed è proprio dietro i muri del manicomio che, tra lucidità e follia, farmaci e cinghie di contenzione e colloqui psichiatrici, i pezzi di un mosaico danno forma a una vita intera. Anche se nel suo peregrinare dentro se stesso/a, Gioia a un certo punto scrive che “la verità, tutta la verità è che non c’è niente che mi restituisca al mondo, nemmeno queste lettere, questi file”. Ma la sua è un’esigenza imprescindibile, senza la quale non sarebbe possibile una vita decente, minimamente umana, tra le pareti del manicomio. Lo scrivere è per lui/lei un dovere, un obbligo morale verso se stesso/a. “Ma devo farlo, devo provarci, mi sento scritta dalle mie stesse mani. […] Queste lettere. Una stampata, l’altra detta, un’altra scritta a mano, consegnata alla croce nella stanza, ai rami della quercia, buttate via, lanciate oltre il muro di cinta”. E scrivendo, Gioia ricorderà di avere ucciso… 
Le ambientazioni tutte — gli interni (il manicomio) e gli esterni (la masseria dei nonni, le case provvisorie, la strada) — sono claustrofobiche. 
I personaggi tutti — la madre torturatrice, il padre violento, il fratellino compagno di giochi, lo zio pedofilo, le colleghe puttane, l’amante pappone, i medici e gli infermieri — sono esseri inquietanti. 
Figura centrale nella formazione di Gioia, la madre, che adotta tecniche educative improntate più allo scarico di svariate nevrosi che al bene della figlia, oltre a trascorrere la maggior parte del tempo con i suoi amanti. Di lei Gioia scrive: “Mi afferri con tutte le coperte e mi butti per terra, casca la terra. Mi dici che sono una puttana una troia una zoccola. […] Tu fai la sarta e io il puntaspilli, tu fai l’acqua e io la vasca, tu fai l’ago e io la mano”. 
Altra figura fondamentale è quella del padre, troppo assente per diventare un punto di riferimento, troppo padre-padrone nei rari momenti di tempo condiviso. La parola “padre” è qui sinonimo di indifferenza e di violenza, di un uomo che uccide il proprio figlio lentamente, giorno dopo giorno con il silenzio e con le botte. E Gioia identifica il motivo di tale comportamento con estrema e paradossale lucidità: “Io sono quello che non hai mai voluto perché sai che ti sono, da qualche parte, sai che sono dentro di te”. 
Ma sono tanti e altri i personaggi che animano i racconti di Gioia, nel bene e nel male. Sono i pazienti della struttura psichiatrica, gli infermieri, i medici. La loro presenza, le loro storie, sono talmente importanti da far dire a Gioia che “se dovessi pensare a una madre, una madre amorevole e severa […] io penserei a Anna [NdR: l’infermiera che si prende cura di lei]”. 
Il libro è anche un’aperta denuncia nei confronti di certe pratiche psichiatriche o pseudo tali, messe in atto tra le mura dei cosiddetti “cimiteri dei vivi”. “Ho paura che i farmaci mi facciano storpia, tutte queste medicine sono la vera follia che mi annienta poco a poco ma non tutta quanta, non definitivamente”. Ma la paura del manicomio lascia il posto a un’altra paura, quella di non riuscire a vivere senza, là fuori dove nessuno si prende cura di lei, dove lei non conta niente per nessuno. 
“È buffo, il posto da dove voglio andare via è l’unico posto al mondo dove sono vivo, dove sono qualcosa. Fuori da qui, non sono niente”. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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