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In cerca, Il sopravvissuto e Il colore del cielo 
 
 
Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
Maurizio Maggiani, Il coraggio del pettirosso, Feltrinelli, Milano, 1996 
 
 
Amo le mie ore d’allucinazione e 
anche le mie ore di randagio, d’immaginario 
perseguitato in esodo verso una terra 
promessa”. 
(Giuseppe Ungaretti
 
Questi versi di Ungaretti, citati all’inizio del romanzo, possono essere considerati il suo degno e necessario incipit. Perché di esodo scrive Maggiani, di terra promessa e di viaggi, reali e immaginari. E Ungaretti, con il suo Porto Sepolto, è punto di partenza e filo conduttore della narrazione, che si svolge tra Alessandria d’Egitto e Carlomagno (piccolo paese arroccato sulle Alpi Apuane). 
“Mi chiamo Saverio e sono nato ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani il 10 agosto del 1947. Mia madre è morta nel giugno del 1953 perché scambiata per chissà chi da un gruppo di studenti esasperati che manifestavano contro il re Faruk, gli inglesi e gli stranieri in generale… Mio padre era scappato dal suo paese subito dopo la guerra. Preciso: subito dopo la sua guerra, che finì un poco dopo quella di quasi tutti gli altri. Era fornaio già al suo paese, un giovane e aitante fornaio, e come tutti i fornai anche lui era un libertario, un anarchico”. 
Saverio si racconta in prima persona dietro suggerimento del dottor Mondrian, dopo essere stato ricoverato per un’immersione azzardata alla ricerca del suo porto sepolto. Dal padre il “pettirosso Saverio” eredita un forno ben avviato (ma non vuole fare il panettiere) e studia ingegneria (ma non vuole fare l’ingegnere). Preferisce dedicarsi al contrabbando giù al porto perché rende bene e gli piacciono le ragazze, soprattutto le turiste svedesi e tedesche. La politica è lontana, l’anarchia gli pare il nome di una femmina. Solo la storiella del pettirosso coraggioso, umile e testardo — che sfida il falchetto per avere il permesso di andare dove gli pare — raccontatagli dal padre anarchico, ne costituisce l’unica eredità politica e morale. 
“Poi un giorno ho messo mano alle cose lasciate da mio padre e ho trovato il libro di Ungaretti”. A Saverio sembra incredibile che il padre possedesse un libro “di quello là”, “di quel fascista”. Ma il libro è la chiave di lettura del romanzo e segna una svolta nella sua vita. A Saverio crea disagio quel libro, che riporta la dedica di Mussolini all’autore, ma che gli trasmette una grande curiosità, quasi una malattia febbrile da spegnere a tutti i costi. Qualcosa che “ha portato poi la mia vita, senza che me ne accorgessi davvero e, peggio ancora, senza che potessi metterci becco, in una certa direzione”. 
Dalle pagine “rugose e giallognole” del Porto Sepolto si dipanano le tappe di un viaggio fisico e fantastico (ma chi è in grado di stabilire i confini tra questi due mondi?). Saverio parte con un’asina per il deserto, “un posto incredibilmente pulito e puro” dove “se una cosa muore si mummifica immediatamente e si pietrifica” a imperitura memoria. Oasi e convogli di beduini, donne in chador e puttane e milioni di scorpioni. L’asina viene punta e muore. Il viaggio è terminato e forse non è servito a niente. “Ma nel deserto effettivamente qualcosa mi è successo, anche dentro, dico”, perché il viaggio prosegue e nella vita qualsiasi evento fermenta e fa andare avanti la Storia. L’importante è scrivere, scrivere e allenare le dita, così dice a Saverio il dottor Mondrian: «Alleni le dita, le fortifichi sui tasti, e vedrà che questo sarà il primo passo verso la completa guarigione». 
Poi è la volta di Roma, dove Saverio “ex apolide con un passaporto falso” incontra Ungaretti. Per caso, o forse per scelta del destino. E il poeta consegna al protagonista un altro tassello della Storia: una pergamena consunta, che parla di un certo Pascal finito al rogo. Il “sovversivo Saverio” è costretto dalla polizia a fare ritorno ad Alessandria. Ma quella pergamena è un mistero così intrigante da spingere “l’avventuroso Saverio” a soggiornare in un monastero copto nel deserto, dove compie numerose ricerche e concepisce la storia di Pascal. Che è Storia passata dentro la Storia presente, fattasi contenitore trasparente di un paese (Carlomagno), di un’epoca (la Controriforma) e di un popolo (esule). 
Muezzin, sufi, Alessandria la grassa puttana, il porto, i bagni turchi. E ancora, le Alpi Apuane, gente di montagna in guerra contro le legioni romane a difesa della propria libertà: storpi, pazzi e canaglie sopravvissuti allo sterminio sopra un poggio tagliato fuori dal mondo, perché “la Via Romana ha segato in due le genti e ha separato un destino e lo ha reso singolare nei secoli dei secoli”. 
“Saverio romanziere” scrive per riempire un vuoto, per dare forma e senso alle ceneri dell’antenato Pascal. Che sono le sue proprie ceneri, di esule tra gli esuli. “La Remington che mi sta massacrando le dita ha solo una forma diversa, ma la sostanza è quella di una fleboclisi. Glucosio per le mie vene. Nel mucchietto di fogli che le stanno belli tranquilli accanto non si nasconde nessuna intenzione più nobile di quella di sopravvivere”. Perché, come si può sopravvivere senza radici ben piantate nel passato, senza raccontarsi agli altri, senza quel senso di comunità che fa di tutti noi degli “esseri sociali” proiettati verso il futuro? Al lettore il piacevole compito di seguire Pascal nelle sue rocambolesche avventure, con il fiato sospeso e un’empatia che cresce pagina dopo pagina. Sino al rogo e anche dopo. Perché la Storia continua, sollecitata dagli amici di Saverio: «Dio, Saverio, non possiamo mica stare qui fino a dopodomani. Andiamo, che cazzo di mistero non sai risolvere? Te lo risolviamo noi se non ce la fai da te». Scrivi Saverio, scrivi, ché la Storia si costruisce con pazienza e può cambiare direzione all’improvviso. E sarà una donna, alla fine, a consegnarti le chiavi per capire ciò che sei e ciò che non riesci ad essere. 
Le persone convinte che la scrittura possieda facoltà terapeutiche, troveranno in questo romanzo una felice conferma. Tutte le altre avranno l’opportunità di ricredersi, convertendosi a una fede necessaria: quella che crede nella scrittura — e nella lettura — quale fonte benefica e di lunga vita. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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