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La forma imperfetta, In cerca, Il coraggio del pettirosso e Il colore del cielo 
 
 
Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
Antonio Scurati, Il sopravvissuto, Bompiani, Milano, 2005 
 
 
“Vitaliano Caccia ci massacrò a colpi di arma da fuoco il 18 giugno 2001, tre giorni prima del solstizio d’estate. Ci sterminò con una pistola semiautomatica, modello Beretta Centurion, calibro 9 per 19, sparandoci a sangue freddo e a bruciapelo. Il primo colpo fu esploso alle 8:46 antimeridiane, l’ultimo sette minuti più tardi. A terra rimasero sette miei colleghi […] in piedi rimanemmo soltanto io e lui. Lui l’assassino, io il sopravvissuto”. 
Il prologo di questo romanzo, ambientato in un’immaginaria ma quanto mai veritiera periferia padana, non poteva essere più spietato, quasi a riecheggiare il linguaggio televisivo, cinematografico e giornalistico di oggi. Parole e immagini crudeli, utilizzate per colpire il lettore allo stomaco o ancora più in basso. Un lettore ormai anestetizzato da quella valanga di liquidi biologici con i quali viene nutrito ogni giorno dallo schermo o dalla carta stampata. Un incipit accattivante, in puro stile noir, che riesce ad avvincere il lettore riga dopo riga. 
Tuttavia, quasi subito il romanzo cambia strada e rallenta il passo. Il lettore può tirare un sospiro di sollievo. Ma è solo un’illusione. L’occhio di Scurati, che è quello del protagonista Andrea Marescalchi, cambia solo l’angolatura dalla quale analizzare e criticare la società odierna. Il pluriomicidio in ambiente scolastico è dunque l’avvio di un’indagine psicologica e sociologica che non si sottrae al giudizio della Storia. Un’analisi che affronta diversi argomenti di attualità, utilizzando un linguaggio all’apparenza difficile. 
Il linguaggio, la precisa scelta delle parole, le più svariate e di uso non comune, costituisce il punto di forza e al contempo il punto debole di questo romanzo, che non scade mai nel falso moralismo o nel facile giudizio di fatti e persone. Può risultare ostico qualche passaggio, ma vale la pena fermarsi e rileggere. E riflettere. Perché il libro non racconta soltanto una storia, bensì fornisce concetti e spunti quasi fosse un Bignami dei più svariati saperi. «Quando definiamo traumatico un evento, utilizziamo una parola greca che significa “forare la pelle”, “rompere l’involucro corporeo”. Un trauma equivale in psicologia a ciò che nella medicina organica è la lesione dei tessuti». Questo è un assaggio di ciò che dice lo psicologo ad Andrea. Poi vengono il magistrato, l’investigatore, il medico, il prete, il giornalista. 
Nel romanzo il tempo scorre in avanti, scandito dagli eventi di cronaca, dalle indagini della polizia, dalla mediatizzazione della morte, dalle visite mediche cui viene sottoposto il sopravvissuto. Che partecipa a tutto questo con una passività mista a rassegnazione, protagonista suo malgrado di un circo dove gli spettatori sono semplici curiosi alla ricerca di notizie morbose, imbottiti di falsità e moralità a buon mercato. “Non una verità sull’accaduto, ovviamente […] Mi fate pena tutti. Queste vostre ideuzze, questo linguaggio da fondi d’investimento prova soltanto che state cercando di riscrivere con la penna biro le verità sul bene e sul male, soprattutto sul male, scolpite nel marmo dai nostri avi. E dimostra anche quanto sia ridicola la vostra pretesa di riuscirvi”. 
Non sono i giornalisti, bensì Andrea a intrecciare il tempo presente con quello passato, nella rilettura dell’ultimo anno scolastico annotato con scrupolo nelle pagine di un diario. Ed è proprio questo diario la chiave di lettura della strage. Giorno dopo giorno vi emerge quella verità che fa troppo male e che viene nascosta sotto falsi moralismi da una società fatta di distorsioni e tabù: lo scollamento tra l’insegnamento impartito da docenti-burocrati ad allievi poco o nulla interessati allo studio (ma seriamente impegnati in attività extrascolastiche al limite della legalità) e la vita di tutti i giorni, intrisa di problemi, soprusi e gioie effimere. Ma ancora più grave è la distanza, che Andrea scopre con orrore rileggendosi, tra ciò che lui ha preteso di insegnare e ciò in cui veramente crede. È dunque lui il colpevole del massacro? È la sua immedesimazione con Vitaliano (l’alunno “caro agli dei”) ad avere scatenato tanta rabbia? “All’origine di tutto deve esserci stato qualcosa di mio, di mio e di suo: una mia parola, un mio gesto, un mio insegnamento rimasto ignoto persino a me che lo impartivo… Dovrò ricordare ogni parola uscitami di bocca tra le pareti muffite di un’aula scolastica e risalire al magistero che il maestro non sapeva di avere impartito”. 
Domande su domande si accavallano nella mente di Andrea e sembrano non trovare alcuna risposta. Nel frattempo, attorno a lui si alternano diversi personaggi surreali, che paiono mossi da un unico burattinaio folle. Ed egli diventa subito uno squallido evento mediatico “usa e getta”, riproposto all’attenzione pubblica così ossessivamente, da apparire un santone con poteri taumaturgici. Lui, il sopravvissuto in grado di donare sopravvivenza a una società allo sbando, dove gli adulti devono guardarsi dai propri figli e dove i giovani vagano senza meta con una pistola in mano. Lui, il sopravvissuto, alle prese con la difficile salvazione di se stesso, con una catarsi che pare l’uscita da un tunnel senza fine. Intanto, la società metabolizza e dimentica, mentre la globalizzazione mette in scena l’ennesima strage. “A Casalegno, nella città martire, la gente era ripiombata nella sua vita di sempre… nel mondo, intanto, un ennesimo attentato di terroristi islamici falciava decine di impiegati e tassisti di Düsseldorf in una discoteca del Sud-Est Asiatico”. 
Possibile ricollegare i fatti narrati nel romanzo agli episodi di bullismo che nell’ultimo anno i massmedia ci hanno riversato addosso? La risposta è no. Nel libro non ci sono alunni dileggiati o picchiati dai loro compagni di banco, non ci sono atteggiamenti irrispettosi di studenti nei confronti dei professori o viceversa. Nel libro sette educatori (insegnanti o genitori, che differenza fa?) vengono massacrati a colpi di pistola da un ragazzo come tanti: irrequieto, spaesato, spaventato, senza riferimenti e senza alcun valore cui aggrapparsi. Non si tratta di bullismo, ma di un gesto che va oltre, anche se il bullismo potrebbe esserne il “padre”, il punto di partenza, la scintilla impazzita. Pare quasi che questo tipo di violenza sia un virus nato tra le mura della scuola, poi sfuggito ad ogni controllo, sino a contagiare l’intera realtà sociale. O si tratta forse del percorso contrario, dalla società alla scuola? “Essere stati vittima di una violenza non conduce a nessuna scoperta, e nemmeno l’esserle sopravvissuti. Nessuna rivelazione ci attende al fondo della ferocia. È soltanto una calle buia, che non finisce”. 
Il quadro allarmante e claustrofobico dipinto da Scurati, viene stemperato, al termine del romanzo, da una nota di speranza: Andrea, in bilico tra suicidio e sopravvivenza, decide di tornare all’insegnamento. Ma il giorno dopo sarà l’11 settembre 2001. Tutto sarà peggio di prima. E Vitaliano non si trova, anche se Andrea potrà ugualmente condividere con lui quel sogno comune di libertà di cui tanto avevano parlato. 
Il libro pare un serpente che si morde la coda. Un epilogo apparentemente senza risposta, che chiede di ricominciare daccapo per approdare a un finale diverso. Eppure, il libro indica una direzione da seguire: bisogna sempre andare al di là delle apparenze e cercare quella verità che, seppure dolorosa, può migliorare lo stato delle cose. Insomma, l’importante è emanciparsi dalla menzogna! I recenti fatti di Erba insegnano… “Se mi avessero chiesto di puntare su qualcuno dei miei ragazzi, io avrei scommesso tutto su Vitaliano. E avrei perso. È così: mi sono sbagliato sul suo conto”. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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