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Il sopravvissuto, Il coraggio del pettirosso e Il colore del cielo 
 
 
Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
Pietro Pancamo, Manto di vita, LietoColle, Faloppio, 2005 
 
 
La raccolta poetica di Pietro si presenta in una veste accattivante: un libro sottile, con la copertina in cartoncino blu impreziosita dalla riproduzione di un dipinto di Magritte (del quale non viene segnalato il titolo). La figura ritratta senza testa è coperta da un manto rosso, forse un “manto di vita”, che fa intravedere le forme di un uomo stanco, in mano un bastone, ai suoi piedi una valigia, sullo sfondo un edificio azzurro fatto solo di porte aperte, tra le quali si rincorrono soffici nuvole bianche. Tutti elementi, questi, che si ritrovano nelle poesie della raccolta, simili a pezzi di un puzzle dalle dimensioni infinite. 
 
Tralasciando inizialmente la lettura della prefazione di Marisa Napoli, vuoi per una sorta di timore reverenziale, vuoi per evitare ogni tipo di condizionamento, comincio la lettura del libro scoprendo subito che le sue piccole dimensioni non sono proporzionali alla qualità dei versi. Quel “[...] giorno che saltella/ lungo le impronte delle mie scarpe [...]” dà il benvenuto al lettore in modo gioioso, foriero di passatempi e divertimenti a venire. Ma subito quel tempo si frantuma tra le mani, metafora del disfacimento cui il corpo va incontro giorno dopo giorno. E non sarà sufficiente un bastone a tenerlo in piedi. 
Poi, compare sulla scena un tacchino riscaldato da mangiare in due “tenendoci per mano [...]”, un boccone amaro che la vita offre su un piatto di piombo a chi non ha il coraggio di vivere sino in fondo la vita. Emerge qui tutta l’ironia del poeta, che a lei si rivolge direttamente per dirle che, in sua mancanza, “la poesia/ è pura (mera) melanconia”. Ed è ancora il corpo a parlare, con una magrezza da indossare come un abito buono, tra disinvoltura e buon umore. 
Svoltato l’angolo, ci viene incontro un uomo, che come tutti gli uomini “è un fagotto/ di buio e di stelle”. Forse è l’uomo ritratto da Magritte, quello con la valigia accanto, stanco di viaggiare o timoroso nel dover partire. O forse è nonno Gioachino, che gioca a dividere il giorno a fette per non sentirsi morire di continuo, ma soltanto un po’ alla volta, e trascorre il tempo tra la sedia e la finestra, “[...] le mani, come due tele di ragno,/ sul davanzale”. 
Con la consueta ironia, Pietro parla del suo disprezzo per “questo mondo/ nel quale si vive/ solo per evitare/ noie al motore”. E pare di sentire ancora il profumo di quel tacchino riscaldato, mentre all’orizzonte si profila la sagoma di un cactus o di un uomo dalle braccia alzate in segno di resa. Il disprezzo di Pietro è una critica feroce al mondo moderno e ai suoi tempi veloci, compressi dentro pistoni in eterno movimento e freni a disco senza musica. “Delusione? Depressione? Confusione senza pari?”, si domanda il poeta. Molteplici le risposte, ma una sola la destinazione: “cimitero a vista”. 
Pietro elabora formule con le parole, ma soprattutto compone figure dai tratti surreali, come “[...] il tempo che si toglie le scarpe/ maledicendo quel profumo rancido/ che si sparpaglia dai piedi [...]”. Si sente odore di decomposizione e la morte pare avvicinarsi, imbellettata di tutto punto per non spaventare il poeta, che la esorcizza scrivendo. Ma sono parole fatte anche di terra e di roccia, concrete e possenti come le braccia dei contadini e le gambe dei montanari. Nel nome di battesimo di Pancamo sta scritto il suo destino: “Io invece,/ montanaro del cuore che batte,/ m’inerpico per un letto castano/ di mie pietruzze in salita”. 
A che serve festeggiare l’inesorabile fluire del tempo quando le stagioni si alternano immutabili e nulla resta da dire “tranne// una scia di passi [...]”? Il poeta, uomo che osserva attento le cose del mondo, sceglie di brindare ugualmente con “una bottiglia alla bocca”, forse illudendosi che l’alcol conservi il cuore intatto e spalanchi la mente a visioni passate e gioie future. 
È sui particolari che si sofferma lo sguardo di Pietro, sulle linee della mano e “[...] negli occhi/ marci di sonno”. Perché ha capito che soltanto nel microcosmo di ogni essere umano si nasconde l’essenza delle cose, la verità che fa male e che per questo va cercata e urlata. Perché il più piccolo dettaglio è utile a ricostruire l’Uomo, senza il quale la natura sarebbe forse intatta, ma certamente più sola. 
 
È ironica anche la vecchiaia raccontata da Pietro. La vita si adegua al disfarsi delle cose e delle stagioni, e pur di evitare la discarica “[...] il rosso del mio sangue,/ che ogni mattina si sveglia,/ non vuol dire più/ rigenerazione/ ma soltanto/ riciclaggio”. Non è facile parlare di vecchi con il sorriso sulle labbra, eppure qualche poeta ci riesce. Chissà se una volta imbiancati i capelli, Pietro saprà parlare di sé come fa oggi, a chilometri di distanza dalla sedia di nonno Gioachino? 
Sorge presto la sera nei luoghi di Pietro e tutto ricopre, mentre “le stelle digrignano in cielo”. Ma è a questo punto che i versi del poeta illuminano la via, prendendo per mano il lettore. Con il “[...] sorriso affacciato alle labbra”, Pietro svela le fonti della sua ispirazione poetica: l’“[...] aria che sa di temporale [...]”, “[...] un angolo d’ombra”, “il silenzio/ che si sgretola nel muro [...]”, “un concerto di cicale”, insomma una natura silenziosa nella quale trovare conforto e consolazione. Un’introspezione che piano si allarga ad abbracciare il lettore, a consolarlo e a trovarvi conforto a sua volta. In fondo, Pietro è solo, il lettore è solo, l’Uomo è solo. 
Forse la vita sta scritta nel buio ed è al risveglio che si svelano “i detriti del mio semplice destino”. Che il poeta sia davvero “[...] il maestro di bravura artificiale [...]”, il direttore d’orchestra dei pensieri e delle parole? Mi piace pensare di sì, che nel dire dei poeti si possa ritrovare un pezzettino di noi, magari letto al contrario. 
 
Dopo avere scritto la mia recensione, mi addentro nella prefazione di Marisa Napoli. Il timore reverenziale resta, ma si scioglie un po’ quando constato di non avere detto proprio delle idiozie. Certo, ho evitato ogni tipo di paragone tra Pietro e qualche poeta famoso oramai defunto (i paragoni fanno sempre male a qualcuno, tutto sommato, soprattutto se fatti da chi non ne conosce a fondo i termini). Eppure, mi sono divertita lo stesso a mettere sotto la mia personalissima lente di ingrandimento la poesia altrui. E il puzzle che cercavo di comporre ora svela una figura bellissima: quella di un giovane poeta, che affronta il mondo con la penna sguainata! 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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