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Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
Anna Maria Fabiano, Il colore del cielo, Liberodiscrivere, Genova, 2006 
 
 
“Nel parentado di Silvia e cugini c’erano dei punti estremamente fermi. Uno di questi era l’importanza e la solennità attribuita ai compleanni e onomastici, di cui alcuni erano addirittura un vero e proprio rito. Il 30 settembre, ad esempio, si festeggiava zia Nina […] I compleanni e gli onomastici erano soprattutto occasioni per stare insieme e cementavano in modo indelebile quell’unione, quella sensazione di essere dolcemente prigionieri di una trappola affascinante, chiusi nella quale si stava così bene da non desiderare altro”. 
Il colore del cielo ha molti punti fermi, dai quali l’autrice parte per molteplici viaggi esplorativi dentro e fuori la sua vita, la sua storia di bambina cresciuta in un ambiente frequentato da tante persone. In effetti, questo libro trasmette all’inizio un certo timore reverenziale proprio per l’affollamento di personaggi che via via vanno a formare un nucleo apparentemente caotico e senza alcun senso. 
Poi, quei molteplici punti fermi assumono una precisa fisionomia: quella di una grande famiglia unita, soprattutto nei momenti difficili, quasi un’unica entità dove trovano posto i vivi e i defunti, il presente e il passato. E allora sopraggiunge, inatteso, il desiderio che l’entrata in scena dei personaggi non finisca mai. Ogni personaggio una finestra spalancata all’interno di una casa accogliente, dalla quale si sprigiona profumo di soffritto, di ragù e di frittelle calde. Dove le tante zie sono altrettante mamme, pronte a scambiarsi la prole in un gesto di solidarietà che al giorno d’oggi non si trova più. Dove i numerosi cugini si considerano tutti fratelli di sangue. E dove i nonni — pur con i loro difetti — sono i depositari di una saggezza antica, della quale non si può fare a meno, alla quale non si può che portare rispetto. 
“Nonno [Giovanni] insomma era un idolo, un uomo senza rivali. Un esempio di onestà, di saggezza, di cultura con tutte le sue caratteristiche: la sua musica lirica, il suo dare senza chiedere, il carattere nervosetto ma affettuoso […] In chiesa metteva la coscienza a posto con la Comunione e poi si lasciava andare all’ammirazione per le belle commesse della Standa. Lui, in verità, sosteneva che, attraverso di loro, studiava soprattutto le caratteristiche del genere umano che esplodono nitide proprio nei grandi magazzini, ma la moglie, la nevroticissima, bigotta zia Iduzza, non la pensava così”. 
E poi, lo svolgersi del tempo davanti agli occhi del lettore, un filo rosso che attraversa gli anni, ma anche i luoghi e i sentimenti delle persone. Bambini che diventano grandi e grandi che diventano vecchi. E i vecchi muoiono. Ma sempre con dignità e comunione d’affetti. E mai soli. Ecco la chiave del romanzo, a mio parere: dentro le sue pagine non c’è mai posto per la solitudine e per l’abbandono. Il lettore viene preso per mano e accompagnato a visitare i luoghi raccontati, i sentimenti vissuti, le tante stanze delle tante case dove si svolgono i fatti narrati. Le stagioni e gli anni passano dentro le pagine di questo libro, ma non si consumano, anzi decantano e sprigionano un profumo di cose buone. 
La storia potrebbe continuare, ovviamente. Ma il suo limite temporale è segnato dall’uscita inevitabile dal mondo incantato dell’infanzia. Una crescita sempre traumatica, sempre misteriosa e avvincente, che in questo libro riesce a coinvolgere il lettore da subito. Perché tutti possono immedesimarsi nella protagonista e rivivere, attraverso le sue avventure, le proprie. Magari diverse, ma pur sempre uguali. Perché gli occhi dei bambini si assomigliano tutti quando guardano il mondo e imparano a conoscerlo, spesso in maniera traumatica, ma pur sempre innocente. Perché gli occhi dei bambini poi cambiano e la realtà diventa vera, per nulla magica. 
“E lei, questa ragazza senza possibilità di definizione univoca, che ha sognato e lottato e fatto il possibile, per realizzarne uno, almeno uno di quei progetti senza sosta, per diventare maestra, seguendo una vocazione, una bellissima sensazione di pienezza, adesso ha paura, le batte forte il cuore, si interroga, si chiede come farà a conciliare il suo compito di educatrice con la ridda di eventi disordinati che le scombinano l’esistenza”. 
La scrittura è accattivante, schietta, limpida e a tratti poetica. Ne risulta una lettura gradevolissima, senza intoppi di sorta. Non potrebbe essere altrimenti, dato che l’autrice è una poetessa a tutti gli effetti. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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