Una recensione
a cura di Lorella De Bon
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“Ti spreme la Fabbrica/ ti evira il sorriso./ Solo inedia ti lascia/ per la sera e neri pensieri/ di essere solo un numero […] A guardarla da fuori,/ la Fabbrica non sembra/ proprio un mostro, non/ fa così paura. […] È quel suo/ ansimare, però, quel tum tum sordo/ che si ode anche da qui/ a dire di bestia, e feroce”.
Io, che le classifiche di vendita dei libri non le guardo mai e mi affido alla piccola editoria, alla curiosità e al caso nella scelta dei testi da leggere, ho avuto il privilegio di incontrare, o meglio reincontrare, Fabio Franzin e la sua Fabrica: un centinaio scarso di pagine, rilegate con una semplice ed elegante copertina blu, con testo in dialetto a fronte, il dialetto parlato in una zona precisa del Veneto e del Trevigiano, quella tra Motta di Livenza (dove vive Fabio) e Oderzo.
È un libro che si anima presto di oggetti: la Sirena, il Nastro trasportatore, la Lama circolare, i Guanti, gli Scherzi, il Frastuono, le Macchine, la Fabbrica stessa. L’utilizzo, come nei nomi di battesimo, dell’iniziale maiuscola colpisce ed è una sorta di “umanizzazione” operata dall’autore, che quotidianamente vive sulla propria pelle il frastuono delle macchine.
Ma più che gli oggetti sono le persone a popolare i versi di Fabio. E ogni persona è una Storia presente e una passata, è un sogno e un desiderio, un pensiero grigio come i muri delle fabbriche e azzurro come il cielo sopra quei muri. Un mondo intero di razze e religioni pigiate dentro una scatola, costrette ai soliti e ripetuti gesti, a una convivenza che affratella “ché tanto sotto i guanti di lattice/ non lo si scorge più il colore/ della pelle”, ma che appiattisce anche, e rende anonimi, semplici numeri di matricola. Uomini e donne a cui Fabio riesce a dar voce, liberandoli dall’anonimato, rivelandoli protagonisti di una Storia, di tante storie.
Renato con la segatura dentro i calzini, che si sparge sul pavimento del bagno e che lui raccoglie per non far arrabbiare la moglie Luisa, “e questo gesto/ gli riporta alla memoria il mare e un’estate/ di tanti anni or sono: la sera che/ lui e Luisa si conobbero”.
Sergio il tornitore, che sognava di fare il dottore e invece “quel/ maledetto incidente… suo/ padre che manca… i soldi/ che mancano in famiglia, che/ mancano anche per la scuola,/ per poter continuare i suoi studi”.
Mirco, che quando entra in fabbrica ogni mattina si sente morire e non comprende l’allegria dei compagni di lavoro. Che sogna guardando fuori da un lucernario, mentre “le mani vanno da sole, esse,/ esse che sanno che non c’è perché/ che tenga, che bisogna, anche,/ tremando, guadagnarsi (afferrare) il pane”.
E poi c’è Roberto, che invece ha compreso “che a ridere e ad annuire/ sempre si fa più strada, è più/ semplice far carriera”. E allora giù a ridere a ogni becera battuta del direttore o di qualche capetto.
Joussouf, insultato dal capo più per il colore della pelle che per gli errori commessi, che riesce a non far caso alle bestemmie perché grazie ai suoi sacrifici in fabbrica “vede i figli/ e sua moglie fuggire/ alla fame; la famiglia ricomporsi”.
Lino, assurto alla carica di capo reparto, non è cattivo ma usa il pugno di ferro con gli operai per mantenere alto il ritmo di lavoro. Un compito importante... però infame: lui è consapevole “che gli operai lo odiano/ lì dentro, che dietro le spalle/ lo mandano a fare in culo,/ lo chiamano rompicoglioni”.
Ma sono le donne a trovare ampio spazio nella pietà di Fabio, perché con loro la fabbrica è ancora più inclemente, arrivando a estirpare la loro femminilità. Donne tanto simili a formiche affannate, che mentre sono al lavoro hanno il pensiero rivolto altrove: “il figlio da prelevare/ all’asilo, la lavatrice da svuotare,/ la biancheria appesa allo stendino/ la mattina, ancora da stirare,/ la cena da imbastire”.
Marta con le mani da uomo per colpa della carta abrasiva e i capelli di stoppa, “tutta una vita/ persa a grattare, a fregarsi/ via dal corpo la bellezza”. Marta che invidia le sue coetanee, che hanno trovato un impiego diverso, più comodo e meno sfibrante, “invidia quelle unghie/ così rosse e lunghe, i capelli/ lisci e luminosi, quelle dita/ ben curate”.
E Luisa, con un diploma di segretaria d’azienda infilato in un cassetto insieme agli oggetti più cari, che scrive “nel cartone poesie/ senza rima che dicono sudore/ e fatica […] poi tira/ una riga e le cancella tutte;/ tira il nastro adesivo, e sigilla”.
Infine Pietro, l’altra faccia della medaglia, felice della propria condizione di operaio che gli assicura ferie e straordinari pagati, talmente felice che “non gli pesa passare tante/ ore chiuso dentro a quei quattro/ muri; quando sono libere/ gli sembrano così vuote, gli/ sembrano persino perse”.
Beati coloro che vivono la fabbrica come una grande opportunità di ascesa sociale, o quantomeno di sicurezza economica. Beati coloro che si accontentano, senza cercare altrove la propria felicità, e che anche il sabato e la domenica indossano la tuta da lavoro per riprodurre a casa i ritmi della fabbrica, in un frenetico e penoso “fai-da-te” che di svago non ha nemmeno l’ombra. Beata incoscienza, sembra voler dire Fabio, lui che incosciente non è, tutt’altro, e che nella poesia ha trovato una strada a sei corsie verso la libertà.
Lorella De Bon
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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