Altre recensioni di Lorella De Bon: Lo stagno delle gambusie, 1915-1918: un uomo, una donna, Quelli che restano, con pelle d’ardesia, La rivolta degli angeli, Pozzoromolo, Lettere scomposte, La guaritrice di Ventotene, Operazione Alarico
Le mie scarpe [...], Avevo i capelli biondi, Acqua Storta, Essemmesse, Il bacio della strega, Contrade madri di aprile, La Riviera del sangue, L’accordatore di destini, Manto di vita
La forma imperfetta, In cerca, Il sopravvissuto, Il coraggio del pettirosso e Il colore del cielo 
 
 
Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
 
 
 
Fabio Franzin, Fabrica
Edizioni Atelier, Borgomanero, 2009
 
 
“Ti spreme la Fabbrica/ ti evira il sorriso./ Solo inedia ti lascia/ per la sera e neri pensieri/ di essere solo un numero […] A guardarla da fuori,/ la Fabbrica non sembra/ proprio un mostro, non/ fa così paura. […] È quel suo/ ansimare, però, quel tum tum sordo/ che si ode anche da qui/ a dire di bestia, e feroce”. 
Io, che le classifiche di vendita dei libri non le guardo mai e mi affido alla piccola editoria, alla curiosità e al caso nella scelta dei testi da leggere, ho avuto il privilegio di incontrare, o meglio reincontrare, Fabio Franzin e la sua Fabrica: un centinaio scarso di pagine, rilegate con una semplice ed elegante copertina blu, con testo in dialetto a fronte, il dialetto parlato in una zona precisa del Veneto e del Trevigiano, quella tra Motta di Livenza (dove vive Fabio) e Oderzo. 
È un libro che si anima presto di oggetti: la Sirena, il Nastro trasportatore, la Lama circolare, i Guanti, gli Scherzi, il Frastuono, le Macchine, la Fabbrica stessa. L’utilizzo, come nei nomi di battesimo, dell’iniziale maiuscola colpisce ed è una sorta di “umanizzazione” operata dall’autore, che quotidianamente vive sulla propria pelle il frastuono delle macchine. 
Ma più che gli oggetti sono le persone a popolare i versi di Fabio. E ogni persona è una Storia presente e una passata, è un sogno e un desiderio, un pensiero grigio come i muri delle fabbriche e azzurro come il cielo sopra quei muri. Un mondo intero di razze e religioni pigiate dentro una scatola, costrette ai soliti e ripetuti gesti, a una convivenza che affratella “ché tanto sotto i guanti di lattice/ non lo si scorge più il colore/ della pelle”, ma che appiattisce anche, e rende anonimi, semplici numeri di matricola. Uomini e donne a cui Fabio riesce a dar voce, liberandoli dall’anonimato, rivelandoli protagonisti di una Storia, di tante storie. 
Renato con la segatura dentro i calzini, che si sparge sul pavimento del bagno e che lui raccoglie per non far arrabbiare la moglie Luisa, “e questo gesto/ gli riporta alla memoria il mare e un’estate/ di tanti anni or sono: la sera che/ lui e Luisa si conobbero”. 
Sergio il tornitore, che sognava di fare il dottore e invece “quel/ maledetto incidente… suo/ padre che manca… i soldi/ che mancano in famiglia, che/ mancano anche per la scuola,/ per poter continuare i suoi studi”. 
Mirco, che quando entra in fabbrica ogni mattina si sente morire e non comprende l’allegria dei compagni di lavoro. Che sogna guardando fuori da un lucernario, mentre “le mani vanno da sole, esse,/ esse che sanno che non c’è perché/ che tenga, che bisogna, anche,/ tremando, guadagnarsi (afferrare) il pane”. 
E poi c’è Roberto, che invece ha compreso “che a ridere e ad annuire/ sempre si fa più strada, è più/ semplice far carriera”. E allora giù a ridere a ogni becera battuta del direttore o di qualche capetto. 
Joussouf, insultato dal capo più per il colore della pelle che per gli errori commessi, che riesce a non far caso alle bestemmie perché grazie ai suoi sacrifici in fabbrica “vede i figli/ e sua moglie fuggire/ alla fame; la famiglia ricomporsi”. 
Lino, assurto alla carica di capo reparto, non è cattivo ma usa il pugno di ferro con gli operai per mantenere alto il ritmo di lavoro. Un compito importante... però infame: lui è consapevole “che gli operai lo odiano/ lì dentro, che dietro le spalle/ lo mandano a fare in culo,/ lo chiamano rompicoglioni”. 
Ma sono le donne a trovare ampio spazio nella pietà di Fabio, perché con loro la fabbrica è ancora più inclemente, arrivando a estirpare la loro femminilità. Donne tanto simili a formiche affannate, che mentre sono al lavoro hanno il pensiero rivolto altrove: “il figlio da prelevare/ all’asilo, la lavatrice da svuotare,/ la biancheria appesa allo stendino/ la mattina, ancora da stirare,/ la cena da imbastire”. 
Marta con le mani da uomo per colpa della carta abrasiva e i capelli di stoppa, “tutta una vita/ persa a grattare, a fregarsi/ via dal corpo la bellezza”. Marta che invidia le sue coetanee, che hanno trovato un impiego diverso, più comodo e meno sfibrante, “invidia quelle unghie/ così rosse e lunghe, i capelli/ lisci e luminosi, quelle dita/ ben curate”. 
E Luisa, con un diploma di segretaria d’azienda infilato in un cassetto insieme agli oggetti più cari, che scrive “nel cartone poesie/ senza rima che dicono sudore/ e fatica […] poi tira/ una riga e le cancella tutte;/ tira il nastro adesivo, e sigilla”. 
Infine Pietro, l’altra faccia della medaglia, felice della propria condizione di operaio che gli assicura ferie e straordinari pagati, talmente felice che “non gli pesa passare tante/ ore chiuso dentro a quei quattro/ muri; quando sono libere/ gli sembrano così vuote, gli/ sembrano persino perse”. 
Beati coloro che vivono la fabbrica come una grande opportunità di ascesa sociale, o quantomeno di sicurezza economica. Beati coloro che si accontentano, senza cercare altrove la propria felicità, e che anche il sabato e la domenica indossano la tuta da lavoro per riprodurre a casa i ritmi della fabbrica, in un frenetico e penoso “fai-da-te” che di svago non ha nemmeno l’ombra. Beata incoscienza, sembra voler dire Fabio, lui che incosciente non è, tutt’altro, e che nella poesia ha trovato una strada a sei corsie verso la libertà. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
È vietato l’uso commerciale e la rimozione delle informazioni di Copyright 
 
 
 
 
Torna alla homepage de «L(’)abile traccia»      Torna alla homepage delle recensioni