Altre recensioni di Lorella De Bon: Lo stagno delle gambusie, 1915-1918: un uomo, una donna, con pelle d’ardesia, La rivolta degli angeli, Pozzoromolo, Fabrica, Lettere scomposte, La guaritrice di Ventotene, Operazione Alarico, Le mie scarpe [...]
Avevo i capelli biondi, Acqua Storta, Essemmesse, Il bacio della strega, Contrade madri di aprile, La Riviera del sangue, L’accordatore di destini, Manto di vita, La forma imperfetta, In cerca
Il sopravvissuto, Il coraggio del pettirosso e Il colore del cielo 
 
 
Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
 
 
 
 
 
 
 
Hugues Pagan, 
Quelli che restano
Meridiano zero, Padova, 2009
 
 
“Ero stato uno sbirro […] mi avevano messo alla porta. Ne avevo preso atto. Avevo sempre la mia .45 in tasca, perché nessuno aveva avuto ancora le palle per venire a prendermela”. 
La trama di questo libro non è delle più originali: una prostituta uccisa, il cui corpo viene ritrovato orrendamente mutilato, le indagini di un investigatore privato ex poliziotto, la ricerca degli assassini e del mandante. Invece, ciò che rende speciale il romanzo di Hugues Pagan è la scrittura: asciutta ed essenziale, secca e cruda. Frequenti le concessioni poetiche, quali le metafore, atte a rafforzare il senso di una realtà troppo crudele e vera per essere sopportata. Una scrittura capace di rendere palpabili le atmosfere di una Parigi malinconica, fatta di nuvole e pioggia, notti insonni e locali equivoci, delinquenti, papponi e puttane, e personaggi surreali. 
Il protagonista, l’ex ispettore Chess, si sente sconfitto dalla vita, dalle circostanze, o meglio da se stesso. “Alla fine, nessuno mi ha spinto nella fossa. Sono io che mi sono seppellito da solo. Da nessuno si è traditi così bene come da noi stessi”. Più che vivere, si lascia vivere, dentro una città cupa, quasi sempre allagata da acquazzoni improvvisi, rabbuiata da nuvole minacciose, a volte illuminata da tramonti mozzafiato. A scandire le sue giornate sono forti dosi di alcool, decine di sigarette e la voce di Billie Holiday (Lady Day), il cui declino personale accompagna lo svolgersi della storia. 
La netta sensazione che si prova di fronte al personaggio dell’ex poliziotto è quella di avere a che fare con un uomo imprigionato nel proprio passato, disilluso e violentato nei suoi più alti ideali. Un uomo assediato dai propri fantasmi, che vive perché deve, ma che farebbe volentieri a meno di svegliarsi la mattina. 
Chess dorme in ufficio, sopra un vecchio divano. Una notte, verso le tre e mezzo, gli si presenta davanti un tale di nome Fortune. “Non era il solito magnaccia. Trentotto anni. Alto come me, e grosso uguale. Elegante. Naturalmente elegante […] il suo respiro breve, secco e sibilante, era quello di un morto vivente”. Fortune incarica Chess di trovare l’assassino di Velma, una delle sue puttane, visto che il caso era stato chiuso ufficialmente dalla polizia con un autentico fiasco. 
Durante le indagini, Chess reincontra Dinah, la poliziotta con la quale aveva avuto a suo tempo una relazione. “Era migliore di me al tiro mirato, ed era brava quasi come me al tiro istintivo […] ventisei anni, e due occhi già fissi e sospettosi. Due occhi senza età, se mai l’avevano avuta […] il tipo di ragazza capace di sfornare un mucchio di marmocchi e pure di tirarli su decentemente”. 
Dei due è Dinah a credere maggiormente nel rapporto e in un possibile futuro insieme, è lei ad amare davvero, forse troppo. Chess, invece, pare lasciarsi vivere anche in questo caso, impegnato com’è nel nuovo e pericoloso incarico. Una missione che, passo dopo passo, lo catapulta dentro un passato dal quale, in realtà, non è mai uscito. “Certe notti ripercorro il mio passato passo a passo […] e finisco sempre per trovarmi di fronte allo stesso muro”. 
E il muro di cui parla Pagan è quello della corruzione che attanaglia la polizia, con la quale Chess ha modo di scontrarsi ancora una volta, sempre consapevole di avere a che fare con persone ignoranti, ma potenti, organizzate e ben armate. Pagan, attraverso il racconto delle indagini di Chess, lancia un’accusa nei confronti della società intera e della “delinquenza di stato”, di cui si hanno sterminati esempi quotidiani, che “si distingue dall’altra solo perché ai suoi membri è garantita l’impunità, la mutua e la pensione”. 
Il messaggio finale di Pagan-Chess è dunque l’amara presa d’atto dell’impossibilità di cambiare le cose, dell’impotenza del singolo di fronte alla potenza dello stato. “Inutile rodersi il fegato per ciò contro cui non si può fare nulla”. 
Ci sono quelli che restano e quelli che non ci sono più. E non è facile, dopo la lettura di questo romanzo, decidere chi siano i più fortunati. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
È vietato l’uso commerciale e la rimozione delle informazioni di Copyright 
 
 
 
 
Torna alla homepage de «L(’)abile traccia»      Torna alla homepage delle recensioni