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Il sopravvissuto, Il coraggio del pettirosso e Il colore del cielo 
 
 
Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
 
 
 
 
 
 
Luigi Romolo Carrino, 
Acqua Storta
Meridiano zero, Padova, 2008
 
 
Nuovamente una sorpresa accarezzare la copertina di un libro della Meridiano zero. Stavolta l’immagine in primo piano è quella di un tatuaggio: due faccioni che ti osservano spietati, orecchie a sventola, labbra carnose, naso importante e sopracciglia folte. Sembrano appartenere alla stessa persona quei volti. Poi, comincio a leggere di un tale che si chiama Salvatore e che tanto somiglia all’immagine appena vista. Possibile che sia lui? La curiosità mi spinge ad andare avanti, ma presto scopro che mi costa fatica leggere, che il mio stomaco mal sopporta certe descrizioni, troppo crude per essere facilmente digerite. Proseguo, attratta dalla scrittura schietta e fluida di Carrino, che si muove nei vicoli di Napoli con un’agilità da vero partenopeo. 
Vengo subito catapultata a Napoli, dentro un’estate qualsiasi. Una città dove non piove mai e dove non si dovrebbe andare in giro in certe ore, dato il gran caldo. Un ambiente difficile, che ti si stampa negli occhi con le sue auto dal parabrezza “sparato”, i palazzi vecchi, l’abuso edilizio, il contrabbando di sigarette, le discariche illegali, i vicoli e le piazze popolati di consumatori, spacciatori, sentinelle e pali. E dove su tutto regna un codice di comportamento non scritto, tramandato di generazione in generazione, fondato sull’omertà, la paura e il rispetto. 
È un viaggio lungo il mio, che vivo nel profondo Nord. Ma succede tutto in un attimo, in un battere di ciglia, in uno svoltare di pagina e al contrario, dato che la storia procede a ritroso, da pochi attimi prima dell’epilogo, attraverso i tre giorni precedenti, fino all’epilogo stesso. 
Lunedì ore 00:07. In un appartamento all’ottavo piano di un vecchio palazzo, due uomini (uno è Salvatore) stanno per uscire. Buste bianche e gialle dentro uno zaino: gli stipendi da consegnare ai dipendenti dell’impresa di “famiglia”. E un’arma. “Infilo la pistola nei pantaloni, dietro la schiena, sotto la camicia. Di solito me la metto in modo che non sta a contatto con la pelle, il metallo mi fa allergia, ma d’estate non posso fare in un altro modo”. 
Il tempo degli eventi è il presente: tutto avviene in presa diretta, narrato dal punto di vista del secondo dei due uomini sunnominati, Giovanni, figlio di Antonio Farnesini detto Don Antonio Acqua Storta, uno dei più temuti capoclan della città e dintorni. Giovanni è sposato con Mariasole, nata da Don Pietro Simonetti, ed è padre di un “piccirillo”. Il loro matrimonio è stato combinato ed entrambi lo sanno, ma Mariasole col tempo ha scoperto di amare Giovanni. “Quello che non sapevo, il giorno che mi sposai, è che ti avrei amato senza ritegno [...]”. Un sentimento che però deve fare i conti con un’amara realtà, quella che il marito “[...] avrà sempre un’amante, un’altra donna”. Mariasole ama alla follia, consapevole del proprio destino di donna sola. “Il destino delle donne come me è quello di essere sole. Vedove bianche, se il marito è in carcere. Vedove nere se sei la moglie di uno “sparato””. 
Paradossalmente, è la figura di una donna — Mariasole — a emergere con prepotenza in questo libro, dove i protagonisti sono uomini. È attraverso le sue parole, pronunciate con quella lucidità e sangue freddo che Giovanni non ha, che si arriva a comprendere appieno il dipanarsi della storia. “«’O ssaje qual è ’o problema Giova’?... Che se uno certe cose non sa come gestirle allora è meglio che non le comincia proprio»”. 
In effetti, Giovanni ha una relazione che non sa più come portare avanti. Ma non con una donna, bensì con Salvatore, il contabile dell’impresa paterna. Il tema dell’omosessualità viene affrontato sin dalle prime pagine. “Salvatore dice che sono una bestia. Mi chiama “’o ’nimale”, ride e pare che non si ferma mai, allora io gli piglio la testa nelle mani e gli do un bacio”. Tuttavia, l’iniziale linguaggio poetico lascia spazio al racconto crudo e violento dell’adolescenza trascorsa nel carcere di Nisida, dove le botte si mescolano agli stupri, il sudore al sangue. Il racconto dello stupro del giovane Michele mi è risultato a tratti insostenibile: tanta, troppa la violenza dei gesti, delle voci, delle parole. Ma si sa... in carcere non c’è posto per la tenerezza. È la realtà, allora, a fare male, non il racconto in se stesso, non il linguaggio utilizzato da Carrino. Lui è fedele cronista di un fatto (verosimile, seppure inventato). 
Giovanni esce dal carcere trasformato, come tutti quelli che si affacciano alla vita da un microcosmo tanto simile all’Inferno. È un uomo duro, senza scrupoli, votato alla violenza e alla prevaricazione, entro un “sistema” dove solo i più forti e cattivi sopravvivono. Eppure, c’è una falla nella sua corazza. Ed è proprio il rapporto con Salvatore. Perché un camorrista non può essere omosessuale, una “femminiella”, un debole. Giovanni ne è consapevole. “Mi pare che mi guardano tutti, ci guardano tutti, pare che tutti quanti ci stanno con gli occhi addosso, pare che tutti quanti sanno”. Forse non tutti sanno di Giovanni e Salvatore. Invece, Mariasole sa. Ha capito perché il marito è assente, lontano anche quando le sta vicino. Mariasole sa e ne parla con Giovanni, che però non capisce o fa finta di non capire. “Alla fine penso che non ci sta niente di male e che sono io a farmi i film in testa”. 
Ma è soprattutto Don Antonio Acqua Storta a sapere. Anche lui ne parla col figlio, ma non direttamente. Il suo messaggio è nello stile della camorra: la minaccia è limpida, chiara e diretta, ma sottintesa. “«Il XV canto dell’Inferno… Tu lo conosci a Dante Alighieri? […] Dante Alighieri aveva un maestro, un certo Brunetto Latini. […] Questo è il canto dedicato a tutti quelli violenti contro Dio. […] Dante, pure che era il suo maestro, e Dante gli voleva bene al suo maestro, lo ha messo nell’Inferno. Perché quando si sbaglia si sbaglia, e non ci stanno santi»”. Ancora una volta Giovanni non capisce niente, ma sente che il padre si è accorto di qualcosa. Perché il padre non parla mai a sproposito e se cita La Bibbia, I Salmi e La Divina Commedia un motivo valido ci sarà, salvo poi contraddirli a proprio uso e consumo. “Mi dice che posso fottere con tutte le femmine che mi pare ma non devo mai mancare di rispetto a mia moglie”. (Però ne La Bibbia c’è forse scritto di uccidere il prossimo?). Don Antonio si premura di mantenere intatto l’onore della famiglia, ma al contempo ordina al figlio di far “schiattare” questo e quello. E Giovanni uccide, non soltanto su commissione, anche di sua spontanea volontà, intenzionato a difendere il suo amore e la rispettabilità della sua famiglia. “Io non mi metto paura di niente. A me non mi fa paura niente. Ma a Salvatore no, non lo dovete toccare manco con un dito, a Salvatore non ve lo faccio nemmeno sfiorare”. 
La storia non si conclude lietamente, com’è giusto che sia. Anzi, di finali ce ne sono due: due omicidi, uno dietro l’altro. Due morti non del tutto casuali, per mantenere quella parvenza di rispettabilità di cui si nutre la camorra. Perché “l’onore è più forte della carne, è più forte del sangue” e per “stare nella grazia di Dio” si può arrivare anche a uccidere la propria famiglia. Anche a uccidere se stessi. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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