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Il sopravvissuto, Il coraggio del pettirosso e Il colore del cielo 
 
 
Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
 
 
 
 
 
Emma Donoghue, 
Il bacio della strega, Meridiano zero, Padova, 2007
 
 
Con Il bacio della strega l’irlandese Emma Donoghue rompe molti schemi precostituiti. Innanzitutto, rielabora tredici fiabe classiche, trasformandole in altrettanti racconti, incastrati l’uno nell’altro come pezzi di un puzzle la cui immagine finale si comprende solo leggendoli tutti. Sfilano davanti agli occhi del lettore il racconto della scarpa, poi quello dell’uccello e della rosa e così via, sino al racconto del bacio. Oggetti e gesti quotidiani che, utilizzati nel titolo e caratterizzanti il nucleo centrale delle singole storie, rendono le fiabe del tutto anonime (sta al lettore riconoscerne l’identità tradizionale). La scrittura, però, non si interrompe mai. Filo conduttore tra un racconto e l’altro è sempre una domanda — chi eri tu prima di essere chi sei ora? —, ritornello che funge da collante tra presente, passato e futuro. Ed è come se ognuno dei protagonisti generasse quello successivo, generato a sua volta da quello precedente. Tredici racconti che somigliano ad altrettante stanze, comunicanti l’una con l’altra tramite una porta: addentrarsi in questi spazi magici significa compiere un viaggio indietro nel tempo, perché ogni personaggio racconta la propria storia passata, metamorfosi necessaria per giungere a essere la creatura presente. 
Ma Emma ci riserva un’altra sorpresa, o meglio un colpo di scena che è davvero un peccato svelare. I protagonisti maschili delle fiabe subiscono una “mutazione”. Il principe azzurro non è un uomo, bensì una donna, e Cenerentola fugge dal ballo perché “non appena le parole cominciarono a fuoriuscire dalla sua bocca, formarono una nuvola in cui potevo vedere il futuro”. Durante la fuga perde una scarpa e strappa il vestito, come da copione, ma poi incontra lei e si chiede: “«Come avevo potuto non notare la sua bellezza?»”. E vissero insieme felici e contente. “Così ella mi riportò a casa, o io la riportai a casa, oppure fummo entrambe portate in qualche modo da qualche parte”. 
È facile innamorarsi del libro di Emma. Perché parla della nostra infanzia, perché lo fa attraverso le fiabe che abbiamo ascoltato da piccoli, perché la scrittura è semplice e accattivante, perché rivisita il tradizionale ruolo della donna in chiave moderna. Dalle pagine del libro emerge così una figura femminile forte e indipendente, decisa a prendere in mano le redini della propria vita e a non farsi più sottomettere dal volere maschile. Una splendida e poetica dichiarazione di indipendenza, certo, ma anche un ritratto attuale della donna di oggi: un po’ santa e un po’ strega, eroina nella vita quotidiana, a volte peccatrice, altre volte vittima di uomini che non vogliono rinunciare al potere che, con l’andare del tempo, ha cessato di essere una prerogativa maschile, ma che ha ancora tanta strada da fare per stare dalla parte delle donne. Le quali sanno quanto sia difficile esercitarlo nel modo migliore, che poi è quello di non commettere ingiustizie. “Potere che dovevo imparare a gestire senza rimanerne scottata, che dovevo imparare a forgiare, dissimulare, sfoggiare e adoperare; dovevo imparare quando era il caso di usarlo, e quando invece di trattenere il fiato e non fare proprio nulla”. Le fiabe, costruite per perpetuare uno status quo, diventano quindi lo strumento con il quale riscattare secoli di sudditanza della donna al maschio. “Ragazzina, vedi questa foglia annerita sotto la neve? È morta, così potrà rinascere su un ramo in primavera. Una volta ero una ragazza stupida; adesso sono una donna arrabbiata. Talvolta devi toglierti la pelle per salvarla”. 
Multiformi i rapporti che Emma ha creato tra le protagoniste del libro. Donne che dialogano, interagiscono, si confessano, si amano e si odiano. In primo piano il legame esistente tra madre e figlia (o tra matrigna e figliastra), spesso conflittuale, a volte simile al rapporto tra vittima e carnefice, fulcro attorno al quale l’autrice sviluppa i racconti. “Il tuo viso non è una gran ricchezza, perciò l’olio di gomito deve essere la tua dote. Ciò è quanto mi ripeteva sempre mia madre. Era la sua battuta preferita, che amava ripetere ai passanti”. Si tratta di rapporti tutti al femminile che sopravvivono alla morte e si perpetuano nel tempo come le fiabe, con il loro carico di dolore e di gioia. “Ogni volta che volevo chiudere la porta per nascondermi, il piede di mia madre la teneva aperta”. 
Le donne di Emma viaggiano e crescono contando solo sulle proprie forze, sottraendosi al millenario potere decisionale del maschio (spesso un potere di vita e di morte). Sullo sfondo della narrazione, molto in lontananza, si possono scorgere delle sagome maschili, semplici accessori da cui prescindere. Storie di emancipazione dalla madre e dalla figura maschile, segnate dall’incognita che caratterizza ogni rapporto giunto al termine. “Pensavo a come entrambe avevamo rifiutato di seguire i percorsi tracciati dalle nostre madri e dalle loro madri prima di loro, mentre invece eravamo andate ostinatamente per la nostra strada, e mi chiedevo se questo alla fine ci avrebbe portato minore o maggiore felicità”. 
I temi trattati nel libro sono tanti, ma ruotano tutti attorno a quello della famiglia: buoni sentimenti, adozione, abbandono, vessazioni. Per arrivare sino all’abuso sui minori, che viene trattato con estrema delicatezza, a conferma che le fiabe sono il mezzo migliore che hanno gli adulti per parlare ai bambini. 
La scrittura di Emma è molto lirica, nel suo volgersi all’interno dei personaggi e nel suo svolgersi tanto simile al verso poetico. “I miei piedi erano in equilibrio come quelli di un gatto. La mia mano aveva il colore della rosa. Guardai in basso e riconobbi me stessa”. Per cui sorprende il modo in cui è scritto Il racconto del casolare, che tanto somiglia a un bambino che parla, con estrema semplicità e molteplici errori. “Una volta avevo fratello che mia madre diceva eravamo due mani una veloce una lenta. Una volta avevo padre che è perso nei boschi. Una volta avevo madre”. 
Alla fine del viaggio, la metamorfosi: la donna si emancipa dai genitori e fugge dalla torre in cui era rinchiusa, stanca di sentire sempre le stesse storie di famiglia e di dover soggiacere all’obbligo millenario di diventare madre. Ma la conquista dell’indipendenza femminile non piace all’uomo, un principe che piange “una principessa immacolata che non esisteva, annegata nel fiume del tempo”. E forse non piace neanche alla donna, il cui nuovo ruolo sembra non appartenerle, “come se una mano invisibile mi stesse attirando”. 
 
In un’intervista pubblicata nel suo sito ufficiale, la scrittrice irlandese afferma che la scrittura non è pura ispirazione (magari lo fosse!), bensì un esercizio quotidiano. Peccato che il pubblico italiano non abbia potuto goderne prima. Sorprende, infatti, l’ampio lasso di tempo intercorso tra la pubblicazione del libro in Irlanda (1997) e la sua traduzione e pubblicazione in Italia (2007). Dieci anni sono davvero troppi, a testimonianza che la buona letteratura è ancora relegata in una nicchia, che mi auguro diventi ogni giorno più stretta e scomoda. Comunque, meglio tardi che mai! Buona lettura a tutti e… ricordate che “baciare una strega è pericoloso […] quale modo più semplice di un bacio per dare strada al potere nel proprio cuore?”. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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