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Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
 
 
 
 
 
Giuseppe Goffredo, 
Contrade madri di aprile, LietoColle, Faloppio, 2007
 
 
“Tendevo al vuoto man mano che il bastone/ infracidito batteva nella terra./ E fino al silenzio. A caccia delle ultime risposte”. Per Giuseppe Goffredo il Poeta scrive per trovare nella parola le risposte ai propri interrogativi. Interrogativi che appartengono al genere umano. Risposte che sono pagliuzze d’oro disseminate nell’acqua di un torrente impetuoso, impossibili da catturare se non ci s’aiuta con l’attrezzatura giusta: la sensibilità di “[...] dare un nome [...] alle cose [...]”, la capacità di essere “lì dove gli altri non possono e non sanno [...]”, nel “[...] bosco/ dove le voci parlavano nell’assenza”. Il Poeta come cacciatore di risposte, al servizio dell’umanità. La Poesia come “pura auscultazione del mondo”. E l’ascolto genera domande senza risposte. Ma non importa, perché a Goffredo basta “un lavoro ben fatto. Almeno questo”. 
“Tu certa mi insegui […]/ [...] Anima che pensi./ Anima che ami. Anima che affronti./ Anima che inventi con il battito/ del polso la quieta e infinita luce del silenzio”. Il silenzio e la quiete sinonimi di riflessioni e di verità, contrapposti al caos cittadino e agli “[...] individui degenerati in entità solitarie […]/ [...] Ognuno attaccato al suo telegiornale”. Per Goffredo le città e la modernità sono sede di un’omertà legalizzata che cela la spontaneità, la verità. E i versi diventano occasione di condanna e di denuncia della società civile, che di civile ha ben poco. Un “quieto cannibalismo dietro un ordinato, civile, decomposto/ bonario esistere”, dove ogni persona è “al suo posto/ e ciascuno nel posto assegnato […] con le spalle basse e le ali imbrattate”. Emerge su tutto e su tutti l’impotenza del Poeta, l’incapacità a donarsi, a donare qualcosa agli altri. Ma non per sua colpa. “Siete in troppi. In tanti. Sazi./ Ignari della grazia e della bellezza”. Il Poeta scava a fondo in se stesso — in fondo all’uomo — scava e soffre. Poi, s’offre agli altri, “oppressi dal ventre che dilata”, impegnati a riempirsi le tasche con l’unico cibo conosciuto: il denaro. La diversità del Poeta sta nel “sentire./ Desiderare le cose. Non capire”. 
In Goffredo il confine che li delimita è talmente labile, che spesso luoghi dell’anima e luoghi fisici si sovrappongono sino a confondersi, a dire che tra il Poeta e il Prossimo non esiste soluzione di continuità, a sussurrare che tutta la sofferenza esistente al mondo può trovare voce nei versi del Poeta. “Ripartire ogni volta da te./ Ché non c’è altra soluzione quando le merci/ lungo il confine sono maneggiate con cura/ mentre i passeggeri sono la merce più scadente e inutile./ Per ciò si stendono filospinati per recintare/ interi continenti colpevoli/ di avere fame con i loro bambini”. Goffredo scruta fuori e poi dentro di sé. Ma esiste un confine tra dentro e fuori? È possibile che l’uomo sia un’entità “a parte”, una parte del tutto, oppure ne costituisce un “continuum” senza il quale quel magnifico ingranaggio che è il mondo non esisterebbe nemmeno? “Muore ogni giorno qualcosa”, senza colpa o per colpa di qualcuno. L’importante è non voltarsi mai indietro e “capire che le cose sono solo nella forza di farle”. La stessa forza e disperazione che spinge migliaia di emarginati a lasciare la propria terra per cercare fortuna nella nostra. E allora la condizione degli immigrati diventa simbolo della precarietà della condizione umana, che spinge a odiare se stessi e anche Dio. “Il Dio della guerra/ contro i mussulmani. Il Dio di un mondo/ senza umanità. Il Dio senza più occhi. Senza più mani./ Il Dio che spara e uccide migliaia di volte al giorno”. 
Il tormento interiore di Goffredo si manifesta anche quando egli getta uno sguardo al domani, domandandosi quale eredità possiamo lasciare alle generazioni future. “Quale forza, desiderio, verità, sogno, coraggio, onore/ consegneremo ai nostri figli, se li avremo lasciati soli/ accanto ad arsenali di bombe, aerei, missili, terre imbrattate di uranio?”. Che sia Roma o Baghdad la nostra terra, non importa. Perché il futuro è un concetto universale come la speranza, come i figli. Versi frammentati, singhiozzi, ricerca affannosa di verità che spezzano il fiato e fanno venire fame d’aria. Pensieri appuntati nel momento stesso della loro nascita, lasciati decantare senza ritocchi o belletti. Da subito si sente — proprio a causa della frammentazione dei versi — una certa mancanza di fluidità, di ritmo, di musicalità. Sta nelle singole parole la forza, la rabbia, il dolore. Sta nel “TATATUM!” futurista l’immagine ungarettiana di soldati vivi accanto a soldati morti “sotto il cielo di Baghdad”. 
Inoltrandosi nel libro di Goffredo, si nota che lo sguardo del Poeta si volge ai paesaggi naturali e interiori. E il paesaggio si accompagna al viaggio. Ed è come se avesse occhi e sguardi sugli uomini, sulle loro vite in eterno movimento. “Almeno che il paesaggio/ non si giri di spalle e lasci/ solo l’autista nell’abitacolo”. Ma sono troppi gli enjambement, troppo assente la punteggiatura. I versi — i significati — si disperdono, si annebbiano, calano d’intensità. Sino ad arrivare nelle “contrade madri di aprile”, dove le strofe sono fatte di versi non allineati, dove gli spazi bianchi forse alludono a un vuoto interiore impossibile da colmare con la Poesia. Aumenta la confusione, che si palesa nell’uso di termini infrequenti, ricercati, ostici. “Bianca boacca di ardori deliquescenti nella bacca”, “Angelica archangelica. Enula. Dioica”. Un delirio di parole, fatto ancora e sempre di domande. “Dov’è che fui punto? In che punto. Punto./ Giunto. A quale punto?”. E nel delirio di contrade assolate emerge la figura bicefala di Madre-Natura, nutrice e assassina che accudisce, ma pronta a punire senza pietà la più piccola disobbedienza del figlio. Ed è un figlio ignaro d’ogni male, “rigurgito di latte./ Battito di piede./ Caldo glume disillabico”, che cresce in solitudine tra “soli corpi fradici lasciati soli […] nocciolo di un dattero/ nello stomaco di un passero”. 
Tuttavia, alla fine della raccolta l’orizzonte si apre e si rischiara, i versi si distendono e dicono. Dicono che “il niente muove le cose”. Ma è un niente che ha sostanza e che pesa sulle spalle del mondo, piegandole. Anche i rami si spezzano e sanguinano. In questo lento, inesorabile e invisibile morire del mondo, il Poeta resta aggrappato alla vita. Come un uccello, “leggero è il suo becco/ a elevare con il verso/ dai polmoni del cielo/ il fiato e spiccare il volo”. 
 
Lorella De Bon
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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