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Una recensione 
a cura di Lorella De Bon
 
 
 
 
 
Annarita Capraro, 
Lettere scomposte
Panda Edizioni, Noventa 
Padovana, 2009
 
 
Sono tante e forti le sensazioni che mi ha lasciato nello stomaco il piccolo libro di Annarita Capraro. Una su tutte: la dualità. A cominciare dal titolo. “Lettere scomposte” quali lettere dapprima e originariamente ordinate, poi smembrate in un processo di analisi del testo, oppure lettere che non riescono a comporsi, segno dell’incapacità della parola-poesia a esprimere i sentimenti umani? 
Duplice, per non dire molteplice, è la lettura di certi temi. Ad esempio quello della maternità, sentito come momento della nascita, “concreto nella sua evidenza di urla e sangue,/ insieme invisibile strappo della rinuncia”, che però coincide con quello della perdita “quando si abbandona un figlio/ tra le braccia della morte”. 
Anche i termini utilizzati da Annarita sono più che mai vari ed assortiti, per genere e carica emotiva. Si passa dalla dolcezza di parole che sembrano attinte dai nidi degli uccelli e dalla culla di un bambino, alla crudezza di parole lanciate in aria come durante un parto, un dolore o un qualsivoglia travaglio. 
Protagonista sempre e solo la donna nel suo aspetto di madre, madre-terra, figlia, amante e poeta. Comunque Donna, “promessa in sposa al dolore”, che da bambina si illude naturalmente di vivere felice, e una volta cresciuta si fa illudere alla gioia magari da un uomo o soltanto da se stessa, per una sorta di istinto di sopravvivenza al dolore. 
In tal senso, il libro pare una sorta di gineceo, dove la presenza maschile è discreta, indiretta, volutamente messa da parte, come confermatomi dall’autrice, nel tentativo riuscito di ritagliarsi uno spazio privato dove viversi in libertà e scavarsi dentro con l’impietosità che solo la poesia sa regalare a chi la frequenta. 
Punto di svolta nel percorso di Annarita è la Maternità. Infatti “da madre mi congiunsi infine al dolore”, dichiara nei versi, anche se alla figlia dice: “«Tu già navigavi dentro di me:/ sogno tra i miei sogni,/ timido desiderio nel mio cuore»”. Desiderio di maternità e di dolore, dunque? Consapevolezza di un dolore necessario per meglio comprendere la vita? 
Sopra a tutto aleggia il Tempo: il tempo passato, quale rimpianto dell’infanzia e di chi se n’è andato per sempre, il tempo presente, per prendere atto del dolore, e il tempo futuro, velato di tenue speranza in giorni migliori. In particolare, Annarita esprime con efficacia la pericolosità di restare intrappolati nei ricordi — “mi sono trovata con la faccia a terra/ il cuore schiacciato dai ricordi/ e non sempre erano felici” — e al contempo la capacità dei ricordi — “saggia medicina ai giorni tristi/ che verranno” — di lenire le ferite dell’anima. 
A fronte delle parole scritte, trapela un mondo inespresso che lotta nell’ombra per venire allo scoperto, ma solo quando il poeta riuscirà a dire senza svelare troppo di se stesso. Ciò riflette esattamente la sensibilità e il pensiero di Annarita, poetessa agli esordi nel mondo dell’editoria, ma con una lunga esperienza di scrittura alle spalle: quella che affratella tante donne, spinte dal bisogno irrefrenabile di raccontarsi e che di notte parlano di sé, se non altro alle stelle. 
Annarita incarna la donna-poeta di oggi, che in parte rassomiglia a quella di ieri: mamma, moglie, lavoratrice (insegnante nel suo caso, che è un po’ come avere altri figli oltre ai propri) e scrittrice, dapprima inconsapevole, poi costretta a prendere coscienza che la propria scrittura, dunque il proprio Sé, può e deve costituire un patrimonio comune. Patrimonio non solo delle donne, ma soprattutto degli uomini, che ancora tanto, troppo, devono imparare sulle loro compagne di vita. 
Una scrittura “di assoluta immediatezza e sincerità” quella femminile, “una scrittura preziosa, oro e diamanti grezzi, che conservano fra le loro venature materiali meno pregiati forse, ma che li rendono proprio per questo assolutamente unici e originali”. Perché lo scrivere delle donne è sempre una “scrittura di sé”, “uno scrivere nato in solitudine ma con il desiderio di non spegnersi in essa, una fiammella da tenere accesa e da alimentare, faticosamente, nei momenti rubati alla casa, al lavoro, quando i figli dormono, spesso nel silenzio e nella quiete della notte”. Così Elvira Bianchi nel romanzo corale Malta Femmina1, delle cui frasi mi sono appropriata e che Annarita Capraro avrà modo di leggere e, spero, apprezzare. 
Un’altra conferma, se ce n’era bisogno, che le donne si leggono, si parlano, si ascoltano. E ascoltano gli altri, siano essi persone o semplici oggetti di uso quotidiano, spalancando quella “stanza tutta per sé” costruita con i versi delle loro poesie, del loro essere discreto al mondo. 
 
Lorella De Bon 
 
 
 
 
 
1 ^ Malta, Malta Femmina, Editrice Zona, Pieve al Toppo, 2009.
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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